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R Recensione

8/10

Nosound

Afterthoughts

Talvolta la musica è incline a proporsi come un volo sulle cose del mondo, ad una altitudine che consente di prendere le distanze dai turbamenti umani, dalle paure, dalle incoerenze. Talvolta invece è un coltello che gira esattamente dove il tessuto emozionale è piagato, lì proprio dove fa più male. Dopo tanti anni che ascoltavo i Nosound pensavo di essere giunto a questa conclusione: entrambe le dimensioni delineate, entrambe le possibilità si susseguono, si incalzano, gareggiano per prendere il sopravvento. E mentre la loro musica sembra cercare una via di fuga, "a way up high",  i testi vanno a scavare lì dove il dolore è più profondo. Almeno fino a "A Sense Of Loss" (2009) è stato così: con "Afterthoughts" qualcosa è cambiato. Adesso i due orizzonti degli eventi hanno sconfinato, compenetrandosi completamente. Le note paiono conficcate nelle parole e nella carne viva dei sentimenti – in un abbraccio struggente – come mai accaduto in precedenza. E sebbene i Nosound abbiano dato in passato già prova di una raggiunta maturità artistica, è con questo nuovo lavoro che si realizza l'essenza della loro arte, così onirica, così immanente, così radicata nei ricordi, ma mai così desiderosa di farsi presente.


 

“Whispers were raging

Our bodies were burning

Every night in my sleep

You become her and she becomes you…”

 

“I sussurri  infuriavano

I nostri corpi bruciavano

Ogni notte nel sonno

Tu diventi lei e lei diventa te…”

(She)

 


Basterebbe iniziare da un pezzo come She per fornire una dimostrazione pratica di quanto appena descritto: una vertigine ambient-pop, scandita dal piano, che si sviluppa in un vortice sonico, al modo in cui i Sigur Ros più ispirati avrebbero potuto dare origine. Un tripudio ritmico conduce ad un finale che inchioda l'ascoltatore, stringendo d'assedio i sensi (e il violoncello di Marianne De Chastelaine fa la sua parte), scaraventandolo in un torrente in piena di brividi e di visioni. Avendo parlato di ritmiche è bene specificare che per tutto l'album è Chris Maitland – storico componente dei Porcupine Tree dal 1995 al 2001 – a mettere a servizio di "Afterthoughts" il proprio fantasiosissimo drumming: è necessario tuttavia precisare che Maitland non si è semplicemente industriato ad applicare il suo canone stilistico al contesto che si è trovato di fronte, ma ha saputo cogliere lo spirito delle composizioni reinventandosi e realizzando passaggi di una raffinatezza mai emersa, in maniera altrettanto cristallina, nei dischi ai quali ha partecipato. Perché se Steven Wilson nei confronti del batterista è spesso stato “imbrigliante”, Giancarlo Erra (cantante, chitarrista, tastierista, pianista, ideologo e inventore dei Nosound) lo lascia completamente libero di rincorrere e trovare, nella sua musica, il proprio percorso espressivo.


"Afterthoughts" offre di sé vari volti, vari attracchi: c'è sicuramente un approdo più "familiare" per quanti hanno fino ad oggi seguito il percorso dei Nosound. E, guarda caso, è quello che ci dà il benvenuto ad inizio lavoro.

 

“It got so cold in this room

Like the white outside

Even tears became snow

I looked at the sleeping trees and cars

Everything covered, peaceful and quiet…”

 

“Fa così freddo in questa stanza

Come nel biancore là fuori,

Anche le lacrime diventano neve

Ho guardato ad alberi e a macchine dormienti

Ogni cosa ricoperta, in pace, in quiete…”

(In My Fears)

 


Alcuni arpeggi e si è immediatamente dentro la mesmerica atmosfera del mondo immaginato da Giancarlo Erra: In My Fears è esattamente la fotografia del concetto sonoro che fin qui la band ha perseguito e, sebbene, densità e dinamismo ora sembrano aver firmato un patto di sangue, il quadro di riferimento – una fluida e passionale psichedelia progressiva – ci consente di introdurci nella fitta foresta di suoni con la sicurezza di chi già conosce la strada, il sentiero che "Afterthoughts" apre davanti a noi.


 

“…I walked from sand to grass through your world

I don't know where to go or where I come from…”

 

“…Ho camminato dalla sabbia fino a radure d’erba,

Attraverso il tuo mondo

Non so verso dove sto andando o da dove provengo…”

(I Miss The Ground)

 

Il brano successivo suggella il punto di non ritorno: riemergono, con un focus più attento al songwriting, gli elementi costitutivi di "Lightdark" (2008). Le onde Martenot increspano l’avanzare del melodramma crepuscolare, in tempo per sospingere il moto ondoso verso un finale sancito da uno dei più imponenti crescendo della discografia Nosoundiana, con un liquido e poderoso assolo di chitarra floydiana e con Maitland pronto ad elevarlo verso distanze siderali.
 D'ora in avanti, i giochi cambiano.

 

“…They were never at the same place

For their eyes to meet

As if they'd lost the will to speak and hear…”

 

“…Non erano mai nello stesso luogo

Perché i loro occhi potessero incontrarsi

Come se avessero perso la volontà di parlare e ascoltare…”

(Two Monkeys)

 


Il pezzo ci racconta la metaforica fiaba di due creature che si inseguono per tutta la loro vita in una selva labirintica antistante il mare, senza incontrarsi mai se non, forse – oltre le loro esistenze terrene – quando i loro spiriti ritrovano pace nei pressi di un pontile. Qui il livello espressivo dell'arte dei Nosound fa un salto qualitativo senza precedenti arrivando a  dar forma e sostanza ad una composizione che sotto molti aspetti parrebbe ascrivibile al David Sylvian più pensoso, mentre sotto altri dà l’impressione di richiamarsi a Entangled dei Genesis, anche se in Two Monkeys è il pianoforte ad intrecciare la melodia e non le chitarre acustiche.

 

 “I miss so much the sunsets at home

The long walks on the seashore”

 

“Mi mancano così tanto i tramonti di casa

Le lunghe camminate sull’arenile”

(The Anger Song)

 

Con The Anger Song ancora uno sguardo al passato: qui probabilmente Maitland avrà trovato la location musicalmente più vicina alle sceneggiature dei Porcupine Tree di metà degli Anni ’90. Tutto l’impeto della forza ispiratrice dei Pink Floyd più estatici, trova in questa canzone terreno fertile. Una power song, in cui la sezione ritmica (un plauso va al bassista Alessandro Luci), disegna geometrie in elevazione di grande impatto. Il testo richiama immagini scavate nella rabbia, nella sabbia e nella memoria, evocando un luogo sul mare che è divenuto il teatro dell’incontro con i propri fantasmi.

 

“…Maybe it's time to let things go

Maybe it's time to surrender

To take this plane

And fly away forever”

 

“…Forse è ora di lasciar scorrere le cose

Forse è tempo di arrendersi

Prendere questo aereo

E volare via per sempre”

(Encounter)

 

Da Encounter in poi si entra nel nuovo territorio raffigurato sulla odierna topografia sonora di Giancarlo Erra: senza più voltarsi indietro, si è sommersi dalla sottile inquietudine tratteggiata dal fraseggio di piano e sottolineata dal violoncello. Il racconto di un incontro mai avvenuto anima una delle pagine più struggenti dell’intero repertorio dei Nosound: il Mellotron avvolge il cuore in una stretta fatale.

 

 “We'll fly over the sea

And we'll dive into our dreams

And we'll fall asleep

Watching the rain feeding trees…”

 

“Voleremo sul mare

E ci immergeremo nei nostri sogni

E ci addormenteremo

Guardando la pioggia che nutre gli alberi…”

(Wherever You Are)

 

Dopo She (di cui abbiamo già parlato), il vento dei sensi non ne vuole sapere di smettere di soffiare, trasportando i naviganti verso un altro dei panorami rimarchevoli frutto della introversa creatività di Erra: stavolta quella che nasce come una ballad (chitarra acustica e voce), si alza da terra e spicca il volo sulle ali di una esultanza percussiva di assoluta genialità. E Maitland, forse motivato dalla voglia di recuperare i tanti anni di lontananza da un disco rock, si scatena – preciso ma prorompente – in una progressione ritmica di pura istintività. Wherever You Are è un episodio che si avvicina molto alla dimensione melodica degli Anathema più recenti (quelli di “We’re Here Because We’re Here” e “Weather Systems”).

 

“C’é una porta che ho chiuso per sempre senza neanche pensare

C’erano cose dietro che non potrò mai ricordare”

(Paralysed)

 

E poi arriva la tempesta. E si entra nel regno dei ricordi, quelli ancora vivi e quelli prossimi a scomparire. I ricordi come foglie che volteggiano e che precipitano in luoghi che non sempre ci è concesso di raggiungere nuovamente. Da questa impossibilità di poter mettere insieme i pezzi di una esistenza attraverso quel filo rosso che i ricordi ci offrono, scaturisce il dolore che i Nosound dipingono – con incredibile verismo – nel corso del più lungo fra i brani di “Afterthoughts”. Paralysed è caratterizzata da quattro sezioni unite ma distinte. L’incipit melanconico tracciato dal piano sfocia in una parte dove una chitarra lirica e una batteria impulsiva alzano il velo di tristezza, non per stracciarlo e gettarselo alle spalle, ma per giungere proprio lì dove fa più male. E lì dove fa più male, Erra sceglie di cantare in italiano, di ritornare idealmente dove le foglie e i ricordi hanno iniziato a depositarsi le une sugli altri e a decomporsi: la poetica di Andrea Chimenti contrassegna questo passaggio di mesto intimismo. La porta alle spalle si chiude, le immagini riflesse nella memoria, le voci, le parole, i colori iniziano a sbiadire portando via con loro quella parte di noi che è gli è appartenuta. E la sofferenza tocca il suo apice: un lunghissimo urlo diventa lo strumento musicale che, quasi in un assolo interminabile, ci conduce alla conclusione di Paralysed. Rabbia e superamento della rabbia: Chris Maitland affronta quest’ultima porzione con una interpretazione che cresce gradualmente di intensità, quasi fino allo stordimento.

C’è bisogno di pace.

 

“I tried to forget

To sleep keeping warm

Taking my steps

Into the unknown…”

 

“Ho cercato di dimenticare

Di dormire al caldo

Muovendo i miei passi

Verso l'ignoto…”

(Afterthought)

 

Ad un’ora imprecisata della notte, una sequenza di note di piano accompagna lo scendere della neve: un notturno (che condivide il gusto per l’essenzialità di Ludovico Einaudi) che diviene reminiscenza di ciò che è ancora lontano dall’esser noto. Afterthought è una elegia pervasa da quella stessa spiritualità ancestrale che permea le “preghiere diafane” degli Ulver di “Shadows Of The Sun” ed emana la stessa aspirazione verso una interiorità trascendente. Non poteva esserci una luce più adatta per “trovarsi”: una distesa armonia per la pacificazione dell’anima, si dipana per prepararla al domani, ma cullandola in uno stato di sospensione che vuole proteggerla dall’incombenza del domani. Un incantesimo sensoriale.

Sigur Ros, David Sylvian, Ulver, Pink Floyd, no-man, Bark Psychosis, Porcupine TreeHammock: queste ed altre le entità che la musica dei Nosound riesce ad effondere, arrivando a convogliarle verso le percezioni di una sensibilità non contraddittoria e vogliosa di penetrare la membrana esterna delle emozioni.

 “Afterthoughts” è l’album definitivo dei Nosound. Un traguardo e, allo stesso tempo, una ulteriore partenza. Dopo i cambi nella line-up (in formazione troviamo oggi alle tastiere Marco Berni, mentre il ruolo certamente non permanente di Chris Maitland, verrà ricoperto da Giulio Caneponi, già con Solar Orchestra e Epsilon Indi; Alessandro Luci al basso e Paolo Vigliarolo alle chitarre sono invece i sodali che da anni affiancano Giancarlo Erra), il nuovo opus – il quarto in studio – è un punto fermo, un fotogramma, che cattura una fase compositiva dallo spessore rilevantissimo e che demarca un frangente temporale nel quale gli equilibri sono pressoché perfetti.

L’esortazione ultima di “Afterthoughts” si concretizza nella volontà di un abile sognatore di bilanciare quelle instabili simmetrie che dividono realtà e illusione, ciò che è e ciò che è stato, propugnando un “memento” che è – sopra ogni cosa, prima di ogni altra cosa – un “memento vivi”.

 

(L’album è disponibile anche in versione limitata digibook con DVD-A/DVD-V contenente il mix stereo e il mix audio in 5.1 e in doppio vinile)

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 5 voti.
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Gio Crown 6,5/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Gio Crown (ha votato 6,5 questo disco) alle 8:00 del 11 maggio 2013 ha scritto:

Bello, indubbiamente tuttavia un po' monocorde. Anche se l'ispirazione viene da lontano (echi di king crimson e anche progressive italiano) si sente un po' troppo languore nelle melodie impeccabili come se tutta la sua "ossatura" fosse fragìle.

Utente non più registrato alle 15:22 del 18 luglio 2013 ha scritto:

Ennesimo buon lavoro dei nosound, che continuano a proporre buona musica la cui più diretta derivazione appare ancora targata Porcupine Tree. Anche la presenza dell'ex batterista conferma questo legame, anche se, a mio avviso, il suo lavoro sempre di classe, appare qui "più facile"...

Peccato che la voce e la pronuncia non siano all'altezza della musica...