R Recensione

6/10

Anathema

Hindsight

E alla fine venne l’unplugged, verrebbe da dire. E sembra quasi una legge non scritta che un gruppo dalle tendenze rumoristiche/suicide/violente (in questo caso metal bello corposo) debba sempre e comunque inevitabilmente alleviare il proprio furore verso un tipo di sound sempre più quieto e pacifico. Prendete avanguardisti (Velvet Underground), “rumoristi” (Sonic Youth), rockettari classici (il Mark Lanegan songwriter dopo i furori negli Screaming Trees), grungettari punk (Nirvana) o heavy (Alice in Chains), e fermiamoci qua, per carità, che si potrebbe proseguire una lista fino a domani mattina.

Dicevamo quindi: prendete un gruppo dagli esordi spavaldi e violenti, seguitene la carriera e al novanta per cento dei casi troverete che il furore si ammorbidisce presto o tardi in maniera inevitabile in un sound più quieto, ben cesellato e calibrato, magari acustico e raffinato. Forse ciò dipende dal fatto che con l’approssimarsi della vecchiaia l’istinto di sopravvivenza impone di cancellare i deleteri ritmi forsennati. O forse subentra un certo cambiamento del palato che porta ad essere maggiormente malinconici, introspettivi e magari romantici.

D’altronde tra i casi sopra citati non di rado si è giunti a forme pop o folk per scelta stilistica ben precisa, nell’ottica di non affossarsi su un modello già definito e riconoscibile; cercando magari di innovare i “vecchi canoni classici” con l’innesto del proprio estro o della propria originalità estetica.

Molto spesso però capita che questi “ritorni alla normalità” debbano essere ricondotti a motivi meno artistici, quali la necessità di rendersi accessibili ad un pubblico maggiore (e quindi di avere maggiori successi economici) o di superare un’evidente crisi di ispirazione, fossato insormontabile per giungere agli ambiti lidi artistici.

È difficile inquadrare in maniera categorica gli Anathema in una di queste categorie. Se è vero infatti che la band inglese è stata uno dei pilastri del metal (nelle sue varianti death, doom e gothic) per buona parte degli anni ’90, è altrettanto vero che la svolta stilistica avvenuta sul finire dello scorso decennio (con l’album Judgement del 1999) non può certo essere considerata negativa né tantomeno ipocrita. Semmai è stato il termine di una evoluzione stilistica progressiva e naturale, magari favorita anche dai numerosi cambi di formazione avvenuti nella storia della band.

L’approdo a un alternative rock melodico influenzato da gruppi come Radiohead e Pink Floyd ma ancora ben conscio del proprio passato metal è quindi un fatto positivo, quanto meno perché in grado di giungere a livelli anche notevoli, come dimostrato in A natural disaster (2004).   

Il problema però sorge, arriviamo finalmente al dunque, quando ci troviamo di fronte questo Hindsight, che altro non è se non una versione edulcorata, romantica e spirituale di alcuni dei classici più recenti della band. Il problema di questa operazione non è il risultato estetico, di fatto molto buono visto il valore intrinseco delle composizioni, bensì la volontà di mascherare un “best of” per un unplugged, o remixaggio o dir si voglia.

Il fatto è che a distanza di quattro anni dall’ultimo disco uscirsene con un’operazione del genere appare come un’evidente mossa commerciale calcolata per tenere buoni i fan e prendere tempo riguardo a un eventuale nuovo disco di inediti.

E questo fattore, non certo positivo, mette in secondo piano l’operazione comunque egregia compiuta dagli Anathema con Hindsight. Sì perché nonostante tutto il disco è probabilmente il prodotto più “popolare” e accessibile prodotto dal gruppo. L’operazione in sé non è complicata: pescare a piene mani pezzi per lo più “lenti” da un occhio che inquadra soprattutto Alternative 4 (1998) e A natural disaster (2004) e spalmare brani già delicati e raffinati con un tocco più spirituale, evocativo e struggente, facendo ampio uso di archi, pianoforte e chitarre acustiche.

Il risultato è inizialmente sorprendente: Fragile dreams risulta più morbida ed elegante dell’originale più tipicamente heavy mentre One last goodbye è una versione oltremodo mistica e intensa. Angelica è l’unico brano che viene accorciato vistosamente (senz’altro con saggia decisione) eliminando il superfluo ampolloso residuo di un assolo alquanto noioso. La maggior parte delle canzoni però non registra variazioni significative della nuova versione. Leave no trace, Inner silence, Are you there e Flying sono forme sostanzialmente identiche agli originali, appena impreziosite da una maggior cura per il languido e il romantico, quasi sempre allungate e indolcite con una cura quasi maniacale per gli arrangiamenti.

Si ha quindi l’impressione che gli Anathema siano riusciti con il minimo sforzo a rivestire di una veste dorata fanciulle già molto affascinanti. Eppure le insidie sono dietro l’angolo perché il languore alla lunga tende a diventare stucchevole e tendente al patetico. È questa sensazione di dolciastro il problema che si inizia a sentire con Angelica e che si ritrova ampiamente nella prolissa Temporary peace, nella melensa A natural disaster e nell’unico inedito Unchained (Tales of the unexpected), decisamente piatto e instabile nella sua ricerca di eleganza.

Diventa allora difficile essere entusiasti per un disco la cui discreta riuscita estetica viene disturbata da risvolti economico-morali così poco cristallini. La salomonica sufficienza diventa la via quasi obbligata per giudicare un'opera che in ogni caso riesce ad ammaliare e stupire per larghi tratti.

 

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