R Recensione

6/10

Mono

Hymn To The Immortal Wind

Oggi, per la prima volta dopo parecchie settimane, ha piovuto. È bastato uno scroscio veloce, violento, poetico di acqua per cancellare giorni e giorni di caldo torrido. Cosa di meglio, allora, che dimenticare una buona volta gli album estivi e concentrare la nostra attenzione su qualcosa di, come dire, plumbeo? Anzi, esageriamo: gelido. Ridendo dietro agli ombrelloni, alla sabbia, al mare, ai servizi di Studio Aperto, il che fa anche molto punk, se ci pensate. Ma non è questo il luogo né il momento. Andiamo oltre.  

Che i giapponesi non fossero solo manga, sushi e j-pop l’avevo già intuito da tempo. Avevo dato per certo, anche, che non tutti i nipponici fossero degli spostati come Yamatsuka Eye, per dirne uno, o Shinya Tsukamoto, per dirne due (ma in maniera inversamente proporzionale). Trovarmi di fronte, però, una band come i Mono e, nella fattispecie, un disco come “Hymn To The Immortal Wind” è qualcosa che mi ha lasciato, come dire, un po’ perplesso. Non ero un novizio dei quattro del Sol Levante: “Under The Pipal Tree”, l’esordio barrato Tzadik – e già qua… - mi aveva colpito, in positivo, perché era riuscito a suonare Neurosis + Slint senza, a conti fatti, grande influenze da parte della cricca zorniana, di solito prodiga di consigli e deturpamenti (affettuosamente parlando) vari. Sludge che cadeva nel post rock, affilando di nuovo le lame per poi sciogliersi in laghi di melodie. Bello? Un po’ troppo per durare a lungo. Non mi fermerò a cincischiare sui – numerosi – capitoli di mezzo, sia per ignoranza che per motivi di spazio. Et patatrac!, salto in avanti di otto anni.  

Facciamo i Walmart della situazione, anche a costo di sembrare cinici. File under: post rock, ambient, glitch. Quindi: Mogwai per le progressioni, Explosions In The Sky per il furore chitarristico, Sigur Rós per l’eterea dolcezza di alcuni frangenti, Godspeed You! Black Emperor per la compattezza del tutto. Potrei andare avanti ancora a lungo, ma non vorrei tagliare le gambe sul nascere ai disperati che mi staranno leggendo. Anche perché, siamo sinceri: con dischi del genere, i riferimenti che vengono evocati sono più o meno sempre i soliti (noti). In due brani della tracklist, fa capolino la parola “snow” ed è forse quella adatta per cercare di riassumere, volgarmente, il contenuto dell’album. I Mono, s’è capito, sono capaci di camminare a passetti lenti, a piedi nudi, senza fare rumore, per distese di taiga, salvo poi cavalcare l’onda di una bufera disastrante, quasi in un piccolo adattamento orchestrale dove la torre di arpeggi è funzionale al crollo finale, un uragano di suono che si staglia fulgido sullo sfondo (“Ashes In The Snow” che, pur non dicendo nulla di nuovo, mozza il fiato). Eppure è uno schema che, passata da tempo la maturità, si avvia ad un prepensionamento cronico ed irreversibile, in mancanza d’alternativa valida. “Burial At Sea”, come si dice in gergo, segue a ruota, senza aggiungere e togliere nulla – nemmeno alla durata, oltre dieci minuti -, piastrellando un’angelica superficie di immaginifici scenari puntualmente lacerati da una parata di tronfia e balsamica elettricità.  

Non lo so, a dire il vero, se l’intento di “Hymn To The Immortal Wind” fosse quello di recuperare sonorità standard, per adattarle ad un contesto pomposo e magniloquente, come una colonna sonora per un fantasy mai realizzato o, più semplicemente, una caricatura di sé stessi, giusto per evitare troppi crocevia e riuscire, una volta per tutte, canonici. Non c’è da dubitare del fatto che, in un ambito magari audiovisivo, il disco acquisti uno spessore altrimenti difficilmente rilevabile su solco, perché troppo drammatico (pianoforte ed archi ad unirsi in “Silent Flight, Sleeping Dawn”: una nuova operetta?) o mortalmente prolisso e pedante, come in “Pure As Snow (Trails Of The Winter Storm)”, dove l’estenuante lunghezza stronca ogni proposito di seguire l’evoluzione (involuzione?) del brano. Salvo poi toccare il paradiso, prima raggiungibile da una celeberrima scala ed ora conquistabile solo con una lotta belluina che, aldilà dell’ormai paradigmatico scontro fra prepubere tenuità e guerriera potenza, piace per l’escalation di movimento che si sbriciola con vigore dentro veri e propri assalti metallici, rammentandosi degli esordi (“The Battle To Heaven”). Una vera e propria epopea in mini-tappe, che avrebbe fatto felice tanto James MacPherson quanto Milmann Parry. Nonostante ciò, ahinoi, i propositi escatologici non sembrano sufficientemente sinceri per potersi lasciare andare e, con un po’ di dispiacere, si è costretti a passare avanti.  

Intanto qui ha smesso di piovere: che i Mono mi abbiano letto nel pensiero?

V Voti

Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 6 voti.
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target 5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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target (ha votato 5 questo disco) alle 11:31 del 13 agosto 2009 ha scritto:

Sì, ascoltato l'inverno scorso, e non mi ha affatto impressionato. Molta manualistica. Dici benissimo, per un fantasy (per fortuna?) mai realizzato.

tarantula (ha votato 8 questo disco) alle 13:41 del 13 agosto 2009 ha scritto:

Questa volta non mi trovo affatto d'accordo con la recensione: è vero, qui non c'è niente di nuovo ma la sincerità sembra genuina ed è forse proprio quella che rende questo disco grande. Inoltre, se il discorso dell'originalità valesse sempre, ci sarebbe da stroncare l'80% dei dischi.

Ho trovato tanta delicatezza che non si trasforma mai in noia, anzi, i momenti di progressione fanno commuovere come nei migliori dischi di post-rock.

Marco_Biasio, autore, alle 17:21 del 13 agosto 2009 ha scritto:

RE:

Questo è il bello della libertà d'opinione

bill_carson (ha votato 8 questo disco) alle 14:30 del 25 aprile 2011 ha scritto:

meraviglioso

arte purissima. l'etichetta post-rock è riduttiva e superflua. qui siamo dalle parte del sinfonismo classico. emozionante.