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R Recensione

6/10

This Will Destroy You

Another Language

Per ogni porta aperta dal precedente “Tunnel Blanket”, a chiudersi, nel comeback discografico dei texani This Will Destroy You, sono portoni: e poco conta, alla fin fine, se non se ne ode lo schianto, se manca l’annaspo. L’astratto intangibile si ritrasforma in chiaroscurale concreto, rinunciando peraltro a dare forti e coerenti segnali di vita: come una favola, un esercizio di stile queneauiano, una riuscita variazione su tema che, esauritasi la spinta propulsiva, può considerarsi parentesi archiviata. L’equidistanza di “Another Language” dal post rock strumentale (di cui condivide spesso e volentieri i mezzi espressivi, ma non il mood), dallo shoegaze (nulla è rimasto del romanticismo primigenio degli epici squarci di suono) e dal drone (un feticcio amorfo sbandierato, senza colpo ferire, a più riprese) riesce a partorire un barcollante ibrido, onesto ed onestamente suonato, ma irrimediabilmente fatuo.

Scarto e disimpegno rimano, semanticamente, con mescilanza: non stupisca scendere la scaletta e trovare un’“Invitation” che, per molti versi, sembra il brano strumentale che i This Will Destroy You non hanno mai scritto per la Odd Future (scansioni ritmiche trip hop, scrittura granulosa e chiassosa, fascino BADBADNOTGOOD). Un lampo, peraltro, del tutto inatteso, ben difficilmente assimilabile sia a ciò che lo precede (una “Mother Opiate” tutta campo lungo e atmosfera, come in un apocrifo dark jazz dei Bohren & Der Club Of Gore), sia, soprattutto, a ciò che segue (la foschia ambientale di “Memory Loss”, dalla quale divampano inferociti i lampi noise di uno scontro tribale). Dovessimo sottolineare un merito rilevante, sceglieremmo il lavoro sporco – insolitamente ed egregiamente – a carico del bravo batterista, Alex Bhore: vincente è la combinazione di crash e ride, quasi doom, che risolleva le quotazioni dell’altrimenti scontatissimo singolo “Dustism”, potente e calibrato il tocco nella rimasticata odissea di “War Prayer” (e peccato per la conclusiva parafrasi orchestrale à la “Sæglópur”, scritta col pilota automatico), ai limiti del metal il contributo su una “New Topia” che veleggia sinfonica su di un inferno di basse frequenze.

È destino, poi, che “God’s Teeth” si sgretoli, col passare dei minuti, sino a svanire in uno sbuffo indecifrabile, come nuvola spazzata dal vento. Altro che another language: la musica, qui, è sempre la stessa. 

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