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R Recensione

7/10

Bobby Previte

Rhapsody

I musicisti, anzitutto: al mastermind Bobby Previte – qui impegnato ad autoharp, chitarra e armonica oltre che dietro le consuete pelli – si affianca un parterre di autentici fuoriclasse, da Nels Cline a John Medeski, dall’arpa della veterana Zeena Parkins (Björk, Cline, Fred Frith, John Zorn…) al giovane sax contralto di Fabian Rucker, per terminare con la lirica performance vocale di Jen Shyu (anche a piano ed erhu, cordofono bicorde d’origine cinese). Non esattamente gli ultimi arrivati, per impiegare un eufemismo. Dietro al poderoso dispendio di mezzi ed energie esibito da “Rhapsody” – secondo capitolo della trilogia “Terminal”, inaugurata dall’omonimo disco del 2014 – si intravede un fine molto più che nobile: il tentativo di ridare voce alle masse di migranti in movimento perenne sul pianeta, di rappresentarne paure e speranze, di restituire al concetto di “migrazione” quella dignità che solo la disperazione della condizione di partenza può ispirare. Tema attualissimo, non solo per la disastrosa contingenza storica in cui ci troviamo a vivere, ma anche per le storie particolari dei protagonisti del disco: basti citare le evidenti origini siciliane di Previte, quelle austriache di Rucker, quelle giavo-taiwanesi di Shyu, tutti attori in libera uscita nella società multiculturale per eccellenza, quella statunitense, dove la serpe dell’intolleranza e del purismo nazionalista ha rialzato impetuosamente la testa.

Un lavoro assai ambizioso, dunque, che è insieme epica odeporica, diario di viaggio, autobiografia, trattato gnomico sapienziale. Una vera e propria (acoustic) rock opera, multimediale già a partire dalla genesi, commissionata dalla Greenfield Foundation, che per il processo di composizione ed assemblaggio ha fornito a Previte anche uno spazio all’interno dell’Hermitage Artist Retreat di Englewood, Florida. Quella che finisce su disco è, dunque, la riproduzione dell’opera che ha debuttato, nell’aprile del 2017, al New College di Sarasota, Florida. La tensione teatrale emerge da ogni anfratto delle composizioni di “Rhapsody”, vere e proprie pièce in movimento meticolosamente concepite per interagire dialetticamente con più componenti sensoriali: si prenda, ad esempio, il solo attacco dell’iniziale “Casting Off”, con la formazione al completo a supportare le elevazioni di Shyu e poi, un po’ per volta, lo sviluppo della frase melodica portante – a mo’ di fuga bachiana – con riprese ed aggiunte progressive di chitarra acustica, piano e sax (rielaborate poi nell’atto finale, “I Arrive”) e una trillante chiusura per arpa che quasi ricorda l’“Epilogue” di residentsiana memoria.

Il rischio, concreto, dell’effetto mappazzone viene scongiurato dalla straordinaria sensibilità artistica dei musicisti all’opera: assolutamente superba è, ad esempio, la mano di Cline nel tormentato soundscape ambientale di “The Lost”, tra nervose sfregature concrète e timide aperture melodiche che rifulgono del candido minimalismo dello Gnostic Trio, e nei complessi intarsi classici che, in “All Hands”, ne fanno prima carburare il contagiri, spegnendone poi gli ardori bop in sofisticatissime sezioni di armonici e fingerpicking. Anello debole della formazione, se non altro per la sua discontinua propensione all’integrazione, è piuttosto la voce di Shyu, la cui fin troppo spiccata personalità rischia di aggiungere ulteriore peso specifico alla formula senza, peraltro, favorirne in ogni occasione la giusta sintesi. Su minutaggi contenuti la situazione tende a migliorare (grossomodo all’altezza dell’emozionante sonetto cameristico “When I Land”, con un Medeski romantico a briglia sciolta), ma continuano a farsi preferire – e di molto – i frangenti esclusivamente strumentali: non meno che toccante è il madrigale neoclassico di “Last Stand / Final Approach” – magnifico il suono dell’erhu – che, nella seconda metà, evolve verso una trascinante epopea jazz rock, e assolutamente intriganti le urgenze free jazz che piagano la densissima costruzione polifonica di “All The World” (chiusura metanarrativa ad opera del solo Rucker).

Disco parimenti affascinante ed esigente, questo “Rhapsody”, che – ispirazione tematica a parte – possiede un altro, enorme pregio: cercare di avvicinare a più estese platee un modo di scrivere, pensare e vivere la musica da molti ormai considerato solo pura anticaglia. Detto niente.

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