Felix

Oh Holy Molar

Nell’estremità più intima e contemplativa, raccolta, nel grigiore diffuso di un ipotetico continuum indie pop (“The Bells”, “Sunday Night”, “Oh Thee 73”).

“Oh Holy Molar” è, in parte e a un primo ascolto, anche questo che rimanda. Ma non solo, appunto: ché avanzando nelle sue pieghe il nuovo disco dei Felix (Luchinda Chua: voce, piano, violoncello; Chris Summerlin alle chitarra) acquista poroso in sfumature, solennità, fluendo e smarcandosi di continuo in molteplici traiettorie - partendo da un impianto base chamber, è bene chiarirlo.

Cantato, e tensione lenta delle (mai troppo esposte) sei corde per arrangiamenti all’osso (Mazzy Star, Hope Sandoval di conseguenza; Joanna Newsom), persi in elegie (indirettamente, si intenda) della Chan Marshall che fu (“Rites” e "Pretty Girls", con punte dal gusto sadcore; la stessa “Oh Thee 73”); certe aperture jazzy (“The Bells”, "Pretty Girls", più arty in "Don't look Back"), poi, sono come sprazzi di luce piombati d’improvviso, dai brevi stacchi di scheletro shearweateriano, in certe fasi. Accompagnamento piano e archi, stridenti, equilibrio stabile e incanto in “Who Will Pitty The Poor Fool?”; "Blessing Part I" trae linfa, sul vuoto di rintocchi sempre uguali e reiterati (avviene, così, anche nel cantato-parlato di "Hate Song" e, in chiosa, su "Little Biscuit"), da poetiche proprie di certe correnti post rock da camera, evolvendo solo per qualche istante (si tornerà a sprofondare in sospiri melanconici poi, come dramma sacrale ed etereo, à la Soap and Skin - da cui, la Chua, sottrae pathos epico) in un liberatorio giro pianistico.

A colpire, più che i singoli pezzi, è la gestalt estetica, i toni proiettati a colpire, che infondono specificità netta al sound. Merito questo che ha convinto, è presumibile, Yann Tiersen a scommettere sul duo britannico - in tour assieme, in alcune date di quest'anno.

E anche la Kranky di rado toppa, "Oh Holy Molar" n'è conferma.