Orphaned Land
The Never Ending Way Of ORwarriOR
Pensate alla vostra vita. Quella inserita in un sistema che la sociologia, al passo coi tempi, definisce sempre più frettoloso, convulso, frenetico, veloce. Poi, riflettete su un ragionevole lasso di tempo. Uno, due, no, vediamo: sei anni. Uninfinità, senzalcun dubbio, checché ne dicano Marx o Weber. Ci mettessimo ora, penna alla mano, ad enumerare tutti i fattori che mutano, anche radicalmente, in sei anni, finiremmo probabilmente tra una settimana. Alla faccia della successione rapida degli eventi che dovrebbe farci sentire, in qualche modo, tutti un po più vicini.
Gli Orphaned Land, da Petah Tikva, in Israele, per dare un degno successore al magnifico concept epico/religioso/escatologico di Mabool (The Story Of Three Sons Of Seven), hanno impiegato sei anni. Unimmensità, direte voi. Forse. Ma lasciate aggiungere qualche precisazione: seicento ore (eh?!?) in studio, la collaborazione di unintera orchestra, decine di musicisti alle prese con strumenti etnici ed esotici, lo zampino di Steven Wilson alle tastiere capire se è più onnipresente lui o Mike Patton, ormai, sta diventando un agone serratissimo , disco tripartito in una quindicina di capitoli, con una durata totale vicina al massimo di ottanta minuti, a seguire una storia che, tra zampate death, zaffate doom e delicati segmenti acustici, racconta la redenzione del Guerriero della Luce, alla ricerca della verità (spirituale? interiore? filosofica?). Roba che un qualsiasi invadente, a spiluccare dettagli, ne rimarrebbe persino stomacato. Ma, se la presentazione trasuda ridondanza e barocchismo da ogni poro, allontanando gli stimoli dei meno interessati, lunico rimedio da contrapporre al primo impatto è, necessariamente, quello dellascolto, del riscontro diretto, della prova di forza.
Compito non facile, è vero. Sia per la complessità delle strutture fra loro intersecate, che ben raramente puntano sulla ripetizione di ponti, schemi e intermezzi preferendo, piuttosto, la creazione e la rifondazione di brani sempre diversi, sia per la particolarità della proposta musicale, più melodica e trasparente che in passato, ma ugualmente attraente nel suo sfoderare devastanti bifronti jewish metal, sia per la sensazione di imponenza ed inaffrontabilità che più duna volta fanno capolino, specie ai primi approcci, quando il display dello stereo sembra non avvicinarsi mai alla meta. Il primo messaggio che gli Orphaned Land, dopo questo letargo autoimpostisi, rivolgono al mondo è la discreta rilettura crossover di un classico yemenita, impreziosita dai vocalizzi delleterea Shlomit Levi, Sapari, dimmi. Quanto vi siamo mancati, quanto lontani credevate di averci sentiti, quante cose dobbiamo ora raccontarci. Da parte loro, si abbonda, straborda, a tratti pure esagera. La narrazione, ripiegata in evidenti attorcigliamenti prog, è serrata e pantagruelica: nelle note, nei cambi dumore, nelle staffette di voci, nellaffastellamento strumentale, nelle increspature dei testi, giocati sullalternanza di arabo e inglese. Confusione e disorientamento prevalgono solo inizialmente, in seguito il quadro diviene nettamente più chiaro.
Quella che si ha tra le mani, The Never Ending Way Of ORwarriOR, è anzitutto una prova maniacale per resa, pulizia sonora ed indagine talvolta estremizzata, sia sul versante indigeno, come nelle stille di Bereft In The Abyss, che su quello metallizzato, con la brutale e sostenutissima carneficina di Codeword: Uprising attraverso le coordinate di partenza. La retrocessione in unautoindulgenza operistica, che spesso intacca lavori di simile stampo, divora solamente The Warrior, marziale ed eroico soliloquio di chitarra inutilmente adombrato da una selva di archi, ed in parte M I?, leggero prog rock per tastiere e mellotron come Wilson comanda. Anzi, se cè una cosa per cui ci si stupisce è la bravura nel non cadere facilmente preda di cali di tensione, scombinando rapidamente le carte in tavola. From Broken Vessels, per esempio, segue una linea melodica costante, pur viaggiando tra unapertura pianistica, una deriva heavy con graffiti in growl e corollari speziati che ricordano vagamente i Nile. Disciples Of The Sacred Oath II è persino migliore, con secchi rincari orchestrali già sperimentati su Mabool (The Flood) schiacciati da ripartenze battute al ritmo di bouzaki e flauti di Pan, in un qualcosa che non è né metal, né folk, né tantomeno crossover (si ritirino i fan di Faith No More e Secret Chiefs 3!) ma, più universalmente, una matrice unica e personalissima.
Nulla da obiettare, possibile? No, qualcosa in effetti cè. A partire dalla frequente dicotomia acustico/elettrico, con lequilibrio fortemente spostato a sinistra. La fisicità è caratteristica che si adatta sino ad un certo punto alleleganza formale degli Orphaned Land, capaci di veri e propri voli pindarici in assenza di gabbie voltaiche (si vedano His Leaf Shall Not Wither, lamentazione boschiva riempita di armonici, ma soprattutto la presa facile della conclusiva In Thy Never Ending Way (Epilogue)). Quando la controparte più morbida tende a mancare, il riffing diviene piatto e monotono, se non addirittura monocorde (gli inserti addosso a New Jerusalem, perfetta così comera in un raffinato scialle world, oppure le distorsioni a zanzara di Vayehi Or). Contravviene alleccezione solamente Barakah, pezzo di una bellezza impressionante costruito su memorabili ghirigori di chitarra e cavalcato, in coda, da un groviglio di spanish e slide. Si ha il sospetto, in ogni caso, che un punto fermo alla commistione intergenere, con le incognite del caso in questione, sia stato posto, e che ben difficilmente si potranno realizzare ulteriori combinazioni vincenti: la noia già tende a serpeggiare dove la freschezza sembra fermarsi (The Path Part 2 - The Pilgrimage To Or Shalem) e la vincente concisione si fa per dire del predecessore si disperde un po troppo.
Riuscire a fare di meglio era difficile, ma riscoprirsi ancora così fedeli dopo tanto tempo è pur sempre una bella sensazione.
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