Agnes Obel
Aventine
Tutto in copertina: in un cerchio, emblema di armonia, nebuloso, il profilo di Agnes Obel, a capelli raccolti. È austera, come il busto di una statua romana (Aventine, non a caso). Ed è accesa, circondata da colori caldi, ardenti, che ne esaltano tratti e ombre. Austerità e calore, dunque, fattori apparentemente discordi eppure cifre di un disco crepuscolare. Che si addice allautunno per le atmosfere lente e decadenti.
Quando è frutto di classe e talento, il minimalismo (appena la sua voce, il piano, viola e violino a farle compagnia), non è mai sinonimo di pochezza. Ciò che cè di piccolo e scarso è solo lo spazio dove la trentatreenne danese, trasferitasi a Berlino, ha registrato: una piccola stanza, con gli strumenti vicini, in simbiosi, nellaria appartata. Larte di Agnes Obel, pertanto, è anche musica da camera, che naturalmente scava nella classica (la madre suonava Chopin e Bartók), ma si insinua in modo inaspettato in tradizioni che si accostano al folk. Si avverte il nostro Badalamenti, e tornando indietro nel tempo ci sono Satie, Debussy; tra questi nomi mastodontici, poi, anche PJ Harvey, quella almeno più sedata di White Chalk.
Chord left apre le danze, primo di tre brani strumentali, bello così comera, secondo le parole della stessa Obel. Fuel to fire, vecchia composizione suonata dal vivo e ora confluita in Aventine, introduce alla conoscenza di questa voce cristallina, sobria e duttile nel suo inglese. In Dorian la base cadenzata del pianoforte, costante, mette a galla nostalgie, mentre la voce parla di una storia in decomposizione, frantumata in mille cocci. La title-track, camminando sulla collina e per terreni propri di Enya, si apre ai falsetti e agli archi vispi: in un brano come questo si illumina lintrinseca potenza di viola e violino, che così scanditi sopperiscono alla totale mancanza di percussioni.
Run Cryed The Crawling, tra le migliori vicende, ribadisce il tema del ritmo, ancora sapientemente organizzato da strumenti privi di piatti e tamburi; la tonalità alzata, verso la fine, impenna ulteriormente il valore di una canzone delicata. Algido è il secondo e breve interludio strumentale, Tokka (molto Ludovico Einaudi), prima che The Curse esprima una lugubre severità in un ritornello che sa di solenne, ma ciò nonostante carezza: è ancora lo strano miscuglio di austerità e calore. La chitarra, di cui lalbum è per il resto orfano, fa visita in Pass Them By, a dare un bislacco tocco di country, coadiuvata dal violino. In Words Are Dead vagola ancora lombra di Enya: agrodolci le parole (non piangere per me), immaginifiche le atmosfere tra i lievi lamenti, a bocca chiusa, e nella coda dilatata. Fivefold (ultimo passaggio strumentale, così detto per le cinque diverse registrazioni che poi si congiungono) apre al finale di Smoke & Mirrors, altra vecchia composizione che difatti risente dellinflusso di Philarmonics, amabile disco precedente.
Rispetto al passato, però, Agnes trova rotondità e ricchezza di suono, nelle sue tele minimali, crepuscolari, bozzetti impressionistici, caliginosi, come se rappresentassero quelle passioni a lungo sepolte e un po sfumate che lei narra nella musica. Questi indizi di anima fragile, autunnale, danno l'impressione che Agnes Obel, fasciata di grazia, sia un cibo per tutti i palati. Ma resta impressa e non guasta solo in alcuni: quelli che dalle papille più sensibili.
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