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R Recensione

8/10

Nick Cave and the Bad Seeds

Murder Ballads

Una “ murder ballad” racconta sostanzialmente i dettagli di un omicidio vero o immaginario: chi è la vittima, perché è stata uccisa, come l’assassino è riuscito ad adescarla e l’omicidio in se, seguito dalla fuga e/o dalla cattura dell’omicida. La ballata si chiude spesso con la descrizione dell’assassino detenuto e prossimo al patibolo, talvolta accompagnata dall’ammonizione all’ascoltatore di non commettere i suoi stessi misfatti.

(Olive W. Burt, “American murder ballads and their stories”)

A scanso d’equivoci: questo non è il disco più bello di Nick Cave e neppure quello più originale. È quello che conoscono tutti, l’abito di gala su cui si prendono le misure, della sua discografia, per quanto grande sia, il primo che io abbia mai ascoltato. Contestualmente il concept è un sigillo in calce al periodo della maturità (inaugurato da Tender Prey (1988) e culminato nella lunga disintossicazione; con la crescita artistica di Mick Harvey, che passa stabilmente alla seconda chitarra, l’ingresso di Conway Savage, Martin P. Casey e Thomas Wydler al posto di Barry Adamson e Kid “Congo” Powers) e l’anticamera di quell’aurea senilità in cui, novello Dorian Gray, precipita e risorge, sconsiderato, l’esule maestro australiano. È puro manierismo, parzialmente alieno dal caleidoscopio di dolore universale e tormenti personali, tessuto connettivo della sua teoria musicale. Si, certo, i suoi temi prediletti ci sono tutti: l’ineffabile morbosità di sentimenti come l’amore, l’irresistibile attrazione della condizione umana verso l’orrore ed il proibito, l’astrusa vanità del delitto che prescinde da ogni logica sociale o condizionamento storico, rivolo discontinuo che fluisce dalle polle insanguinate del peccato mortale.

D’altro canto, però, si percepisce nitidamente il distacco di un artista che lascia intravedere in filigrana gli artifici della costruzione retorica, la mediazione di forme riconoscibili carpite alla musica e alla letteratura popolare; in altre parole: l’enunciazione, la linearità della fabula musicale, la novelty dichiarata. In effetti, l’autore, quarantenne all’epoca della registrazione, già da un pezzo s’è tirato fuori del guado dell’autodistruzione, dell’autodeterminazione “raskolnikoviana”, dalla scapigliatura nichilista, e può contemplare con sereno pessimismo il paesaggio infernale da lui stesso evocato, magari, mentre accompagna per mano il figlio Luke lungo Portobello Road.

Un Cave più imbonitore da circo d’elite che predicatore dell’apocalisse, più Barnum/Browning che Blake/Villon (il passaggio dall’io lirico/autobiografico ad una prevalente focalizzazione interna); un corpus di canzoni che, pur conservando la classica ambientazione in bilico fra l’urban legend vittoriana e il gotico sudista dei desperados, assomiglia alla “letteratura carnevalizzata” del Bachtin (si ha sempre l’impressione che i personaggi abbiano la consistenza di maschere o di ombre cinesi e che l’indomani ogni cosa tornerà magicamente al suo posto) più che alle maledizioni ataviche dell’antico testamento (una polifonia narrativa in cui tutti, vittime, carnefici e testimoni hanno pari libertà di parola e nessuno sembra veramente pentito di quello che ha fatto). E poi c’è la musica, sorta di mostruoso alveare di stili e sonorità che cesella suggestioni provenienti dai più disparati punti nell’arco della storia tonale dell’occidente: parlour ballad e duetti da cabaret “weilliano”, lied aristocratici e blues da mendicanti, pop neoclassico e svisate industrial wave (d’altronde un quintetto di accompagnatori capitanato da Blixa Bargeld e arricchito da un cast di contorno che può contare su Sclavunos, PJ Harvey, Warren Ellis e Shane Mc Gowan, lo ammetterete, ha pochi eguali al mondo).

Song of Joy (inizialmente intitolata Red right hand part II) è una mini suite gotica che Cave e Harvey arrangiano come un brano da colonna sonora alla Ira Levin (o Howard Shore); la piccola orchestra da camera commenta abbastanza liberamente la suspence di un racconto che è l’apice del “cantar recitando” di Nick. Fermo nel suo baritono da Old Vic e forte delle recenti esperienze teatrali, Cave non rinuncia alle citazioni dal prediletto John Milton (“Farewell happy fields / where joy forever dwells/ hail horrors hail” è il lamento di Lucifero nel “Paradise Lost), ma si concede vezzi un po’ obsoleti da narratore d’appendice alla Le Fanu, quando si rivolge direttamente all’interlocutore/ascoltatore (“Ah signore, ora vedo che sei attento!”), che si rivelano altrettante clamorose infrazioni alla “sospensione dell’incredulità” e ci invitano a non prendere troppo sul serio questo primo giro nella sua spooky house.In Stagger Lee, invece, si avverte soprattutto la mano di Blixa che restaura un traditional southern blues aspergendovi una specie di puntilismo industriale (tastiere metalliche e sovraccariche, colpi di pistola, flanger urlanti, folate di scream e noise mentre già scorrono i titoli di coda); Cave, dal canto suo, si conferma banditore complice e corifeo d’indiscusso valore prestando la voce a tutti i personaggi della grandguignolesca ballata (irresistibilmente sguaiato nei panni muliebri della prostituta Nelly Brown, “Why not come to my pad? It won’t cost you a dime / Mr. Stagger Lee ”) e si lascia andare a sprazzi di humor nerissimo degni di un Tarantino o dei fratelli Cohen (“She saw the barkeeper and said / -Oh God he can’t be dead - / Stag said -Well, just count the holes in that motherfucker head!-”). Henry Lee, parlour ballad moralista, languido duetto da saloon con la mantide PJ che trafigge lo spasimante (di un’altra) Nick (val bene un’occhiata al videoclip con i due che fanno pesantemente lingua in bocca), è il classico “humbug” con cui i Seeds strappano una lacrimuccia al pubblico pagante, d’altronde, sostiene Barnum, “There’s a sucker born every minute”.

Il satiro inveterato di Say goodbye to the little girl tree (dove si ammazzava per sopprimere il desiderio di una bambina), lugubre discepolo di Mr.Hyde, Jack the Ripper e “M. il mostro di Dusseldorf”, torna dall’aldilà in Lovely Creature, stomp ferroviario che mescola suoni industriali anni ’90 (i contrappunti affilati di Bargeld, le opprimenti figure pianistiche di Conway) e le atmosfere onirico-fiabesche dei film espressionisti degli anni ’20 (la cantilena infantile in sottofondo, la laconica confessione dell’omicida impersonato daNick). Where the wild roses grow,power valzer orchestrale a due voci (con Kylie Minogue che qui canta pure benino, prima di regredire alla fase orale con tutti i suoi “na-na-na-na”, ma che gli fai alle donne, Nick?), è una duplice riprova: che Cave sia ormai un manierista convinto, per l’accorata, banale polifonia narrativa dell’impianto musicale e che sia ancora un grande poeta, uno dei pochi i cui testi valgono sempre la pena di essere letti, nell’ellittica eleganza degna di un Wordsworth con cui arresta il frame lirico un istante prima dell’omicidio (lei: “and the last thing i heard was a muttered word / as he stood above me with the rock in his head”) e lo riprende subito dopo (lui: “as i kissed goodbye, said -All beauty must die- / and lent down and planted a rose / between her teeth”). The curse of Millhaven inizia come un baccanale dei Birthday Party e finisce con un coro da burlesque, in mezzo c’è un po’ di tutto: cantici carcerari, can can di omicidi, rullate imbizzarrite, volute di Hammond e capolavori di prestigiazione letteraria (“Yes, it is i, Lottie, the Curse of Millhaven / i’ve struck horror in the heart of this town / like my eyes ain’t green and my hair ain’t yellow / it’s more like the other way around”).

Cave quasi si commuove del suo stesso romanticismo narrando le “disgrazie della virtù” lungo le infinite vie della Grande Depressione in The kindness of strangers, con tanto di ammonimento finale (“so mothers keep your girls at home / don’t let them journey out alone”) e metonimici, spettrali singhiozzi. Il blues arcaico di Crow Jane richiama esplicitamente i furibondi salmi di The fistborn is dead anche se tradotti nell’odierna maniera, composta ed orecchiabile, che ormai abbiamo imparato a riconoscere. O’Malley’s bar, un lounge-blues infernale di 14 minuti (va bene che “c’è un tempo per uccidere”, ma anche quel tempo ha i suoi limiti!) il cui protagonista infrange tutti i record stabiliti dai precedenti “ballad murderers”: stende dodici avventori, anche loro parecchio sgradevoli, nello squallido locale del titolo, sfumandoli, nel delirio della sua mente, predestinato e demenziale esecutore di una malvagità connaturata nell’uomo, nelle icone nobili ed elevate di San Francesco e San Sebastiano. Death is not the end, gospel dylaniano intonato, come in una staffetta, da tutti i vocalist presenti nel disco (cui s’aggiungono Shane Mc Gowan, Anita Lane e Thomas Wydler), insinua, nell’apparente, consolante dolcezza, un dubbio raggelante: e se la morte non fosse la fine? Se l’orrore continuasse anche dopo?

Un consiglio: intanto ascoltatevelo e se, casomai, vi assale una voglia insopprimibile di fare secca la vostra coinquilina, date pure la colpa a lui. Non a me. Sennò Amato ci mette tutti quanti in galera, e, cazzo, non in una prigione tipo film porno, ma in una coi maschi!!!

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Voto degli utenti: 7,9/10 in media su 20 voti.

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target (ha votato 7 questo disco) alle 10:15 del 16 novembre 2007 ha scritto:

My name was elisa day

Disco più letterario che musicale, un pochiello compiaciuto. Non mi ha mai entusiasmato. Tecnica ed esilarante, come sempre, la tua analisi, talmente tanto convincente che ho in mano le viscere fumanti dei miei cinque coinquilini. Saluti!

ozzy(d) (ha votato 5 questo disco) alle 14:31 del 16 novembre 2007 ha scritto:

e basta nick!

Ti dirò, Cave è un personaggio strano. Una volta smessi i panni del guastatore sonoro coi Birthday Party e archiviati i primi, geniali album da solista si è arenato su una posizione da languido cantore di storie para cohen-waitsiane. E non ho mai capito come facesse ogni sua uscita negli anni 90 ad essere salutata, immancabilmente, come un capolavor. Questo album personalmente mi aveva stracciato le palle.

simone coacci, autore, alle 15:03 del 16 novembre 2007 ha scritto:

We're a microspic cog in his catastrophic plan! Designed and directed by his Red Right Hand

Come ne "I Commitments", scena: storia della musica, sezione classici, int. giorno; personaggi: Simone e Gulliver.

Simone: "Non bestemmiare, Gully, Cave è Dio!"

Gulliver: "Sai non ce lo vedo Dio, con il ciuffo a banana e l'occhio strafatto che canta "The ship song"!

Scherzo ovviamente . No, comunque, a me piacciono anche gli album (Tender Prey & The good son da impazzire)che ha fatto dopo e comunque fatico a trovarne uno sotto la sufficienza. Dipende certamente dalla mia infatuazione e/o semi-professione musico-letteraria e dal fatto che i suoi testi sono indiscutibilmente fra i più belli (se non i più belli) della storia del rock.

Da punto di vista schiettamente musicale ti do ragione, la soggezione di certa critica (e spero di non essere scivolato anch'io sulla loro stessa buccia di banana) è stata ed è spesso eccessiva.

P.S: Target dì che sei inciampato, che la traiettoria del coltello è stata puramente accidentale e vediamo se ti credono anche se non porti la divisa. E poi, vedi, anche qui, c'è di mezzo di PJ, ma ti pare possibile? ihihihi ciao bello.

Ciao a tutti e buona lettura.

DarkBreathing alle 10:12 del 17 novembre 2007 ha scritto:

Uno dei miei dischi preferiti. Pensando a questo album mi viene in mente l'immagine di un uomo che sorride con la bocca completamente insanguinata.. è cinico, dolceamaro, ma anche terribilmente sexy. Amo quest'uomo e il senso di irrealtà in cui mi trasporta.

Ottima recensione

fabfabfab (ha votato 10 questo disco) alle 15:41 del 9 giugno 2008 ha scritto:

Titolo

fabfabfab (ha votato 10 questo disco) alle 15:42 del 9 giugno 2008 ha scritto:

Superiore

Roberto_Perissinotto (ha votato 10 questo disco) alle 16:41 del 13 ottobre 2008 ha scritto:

Disco stupendo. A parte che riesce a revitalizzare anke Kylie Minogue per una stupenda "Where the wild roses grow", le musiche si fondono con i testi in maniera indissolubile...e poi consiglio a tutti di tradurre le canzoni...ne vale la pena!!!