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R Recensione

7/10

Egle Sommacal

Il Cielo Si Sta Oscurando

Dal fenomeno al noumeno. Dalla policromia al monocromatismo. La straordinaria cover de “Il Cielo Si Sta Oscurando” dice tutto del proprio autore e delle tensioni che lo animano. In penombra, quattro alberi sono catturati, immobili, in un attimo preciso della loro lunga storia: come se nell’impressione fugace di un attimo si possa comprendere una vita intera. Attorno a loro, il velo di Maya: sotto, la Realtà. Egle Sommacal depone armi e bagagli, saluta la sgangherata combriccola che lo ha aiutato ad assemblare lo sgargiante “Tanto Non Arriva” e se ne riparte, da solo, alla scoperta di un mondo già adombrato nel primo “Legno” e tuttavia non ancora inquadrato, fuggevole nella sua essenza. Con lui, una chitarra acustica e (quasi) nient’altro. Gli alberi, come ogni altro organismo vivente, rispondono alle sollecitazioni provenienti dall’esterno. E se la sollecitazione provenisse dall’interno?

Sommacal osserva, in disparte. Disegna, ma che dico: dipinge. Brevi tratti, fitti, intensi. Lunghi crittogrammi ricorsivi, spirali di arpeggi in fingerpicking a variazione minimale. Totale controllo del proprio strumento e dell’impianto armonico. La title track avanza, cogitabonda, su territori di assoluta nudità: ogni passaggio getta luce su quello successivo, ogni incastro melodico contiene in sé il germe della ventura dissonanza. Nelle pause, nei silenzi, il senso del brano: che a pochi secondi dal termine, difatti, tenta di riprendere la head principale, interrompendosi però sul più bello. Solo a distanza di parecchi minuti le risponderà l’elegante valzer narrativo di “L’Ultimo Grande Collezionista”, il cui trotto spedito sbanda vistosamente in una seconda metà folkish (ma dal tocco jazzy) decisamente più distesa. Su “Nuvole Sopra La Bolognina” (frase principale e contrappunto in continuo scambio fra loro), la chitarra diviene un ruscello, un torrente, un fiume da cui dipartono centinaia di affluenti: il passo si fa silvano, saltabeccante persino, in “Nessun Posto Sicuro”, in cui l’americana delle distese sconfinate si concede delle vigorose sgroppate a briglia sciolta. E che non ci sia davvero nessun posto sicuro, nel mondo adombrato da Sommacal, è evidente da molti dettagli: una “Gravità” che si dissolve in spire neoclassiche (la sei corde in dialogo con il proprio riflesso), in un profluvio di rimbombi e delay opprimenti; le delicatissime trine in slow motion di “Hello Guys”, riprese in una seconda parte così isolazionista da sembrare una compieta sussurrata a mezza voce; infine, il flamenco salmastro di “Ryou – Un Maru”, sotto le cui spoglie si nasconde una processione funebre di assoluta desolazione, come un Segovia dolomitico a colloquio con il doom scandinavo.

Ryō Un Maru, in kangi 漁運丸, significa “augurio per la pesca”. Si trattava di un peschereccio giapponese che, travolto dallo tsunami del 2011, si disancorò dal proprio porto e vagò in aperto oceano per oltre un anno, fino ad essere affondato, il 5 aprile del 2012, nei pressi delle coste dell’Alaska. Che, tra gli arpeggi e le tonanti corde a vuoto, si insinuino le beffarde risate registrate di un telefilm senza nome (in un insanabile contrasto che ricorda il David Lynch di Rabbits) è l’ennesimo tentativo di registrare l’inquietante contraddizione dell’esistere umano, in perenne e ridicolo affanno di fronte ad una realtà che – Ringkomposition! – ai suoi occhi non diviene mai Realtà. Gli alberi, dopo essere stati illuminati, tornano a non esistere. È la degna conclusione di un disco importante.

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