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R Recensione

5/10

Municipal Waste

The Fatal Feast

So esattamente cosa e quanto aspettarmi dai Municipal Waste. Sempre. Ciò mi porta ad accontentarmi, spesso. A stupirmi, più raramente, come un paio d’anni orsono con “Massive Aggressive” che, per il suo voler scientemente diminuire i ritmi e gestire le velocità scavezzacollo con un ventaglio di influenze morbosamente traditional – in due parole: thrash-core a randello mitigato da riuscite melodie NWOBHM… ehm, quella “N” starebbe ancora per “New”? – era stato puntualmente stroncato dalla frangia oltranzista dei metallari duecento-bpm-as-way-of-life. Un peccato perché, di fatto, i Municipal Waste si incarnano perfettamente proprio in quella categoria di ascoltatori intransigenti, ciecamente sordi e reazionari fino alla parodia: l’istanza neo-repubblicana che si oppone, a priori e con violenza, alle gigantesche conquiste e alla progressiva emancipazione che il pilastro principale ha strappato, nel corso degli ultimi anni, ibridandosi senza paura di snaturarsi e coniando formule di strepitosa efficacia e vertiginosa fantasia.

Il quartetto di Richmond, Virginia, va esattamente nella direzione opposta. Non che sia per forza un male, specie se non si è grandi amanti della globalizzazione. Ma – pur disprezzandolo pubblicamente in ogni ambito – per potersi permettere il lusso di essere conservatori bisogna, per forza di cose, appartenere ad una delle seguenti èlite: o vecchie glorie, che tempo, coerenza e zoccolo duro pretendono non scostarsi una virgola dalla matrice stilistica che li fece esplodere venticinque se non trent’anni fa, oppure giovani citazionisti rampanti con doti di sintesi e songwriting esplicitamente fuori dal comune. Un decennio addietro, ai tempi della goduriosa fucilata di “Waste ‘Em All”, avremmo inserito tranquillamente i Municipal Waste nello scarno calderone della seconda fazione. Un decennio dopo, inevitabilmente smarrita per strada l’esuberanza giovanile e rinnegata malamente la timida apertura evolutiva, il gruppo si trova in un limbo imbarazzante: non più nuove promesse da scoprire, ma nemmeno vecchi draghi consunti dall’abitudine ed un’abilità di scrivere canzoni che, ahiloro, è crollata a picco. Né carne né pesce, insomma. “The Fatal Feast” fotografa impietosamente una medietà strutturale ed espositiva da cui sembra non vi sia possibilità di scampo.

Tony Foresta è forse la voce del Nuovo Millennio più vicina a quella di Tom Araya, spruzzata ulteriormente di arroganza punk e lordi strascichi da vandalismo di periferia. Dietro di lui, la perfetta riproduzione dei maestri losangelini, con passaggi che rasentano la fotocopia (“Unholy Abductor”, “Covered In Sick / The Barfer”), groove stritolanti (i bassi zigzaganti di “Idiot Check” e “Authority Complex”, pulizia sonora assicurata negli assoli), giochi di decelerazioni e accelerazioni con improvvisi rischiaramenti melodici da strillare nei cori a pieni polmoni (gli Angel Witch di “Repossession”, i Venom lisciati hardcore di “Standards And Practices”). Quasi sempre i brani sacrificano la complessità dei riff alla velocità di esecuzione, lasciando poco spazio ai midtempo (come nella bella seconda parte di “Crushing Chest Wound”) e facendo sembrare il tutto un’unica, monocroma, poco credibile, finanche noiosa tirata. Troppo classiche le soluzioni, troppo statici gli incastri, paradigmatici fino all’usura i suoni. C’è evidentemente qualcosa che non va in un gruppo che, arrivato alla quinta prova in studio, decide di rifare pari pari la prima, senza possedere un briciolo di quella concisione e della stessa cattiveria (un pezzo come “Jesus Freaks” in che direzione va, di grazia?). A poco serve dipingere di fantascientifico una title-track che trova sostegno solo nelle sfuriate, negli stoppati e nei palm mute del chorus, o piazzare la doppietta migliore dell’intera prova (la minacciosa cadenza di “Death Tax”, un’impeccabile “Residential Disaster”) in coda: trucchetto dispendioso e, alla resa dei conti, inutile.

Ai ragazzi bisognerebbe girare la domanda che loro stessi sputano in faccia all’ascoltatore: do you feel good for what you have done or do you feel regret? È ancora colmabile questo iato?

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