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R Recensione

7/10

Cabeki

Da Qui I Grattacieli Erano Meravigliosi

Pende un enorme sole rosso di cartone sopra la testa di Glauco-Piccoli, l’alienato ingegnere protagonista del ferreriano Dillinger è morto (1969), che nella violenza fisica e nell’escapismo psicogeno inutilmente cerca di sottrarsi alla propria annichilente quotidianità: un astro senza calore che è gargantuesca reificazione dell’apocalisse, ma che allo stesso tempo allontana ogni fase terminale, ogni punto di arrivo, inchiodando il personaggio in un limbo purgatoriale senza uscita d’emergenza. Piccolo Piccoli, ma così piccolo è anche il misterioso viandante tra le dune bluastre di un deserto in negativo, illuminato a notte da una supergigante sull’orlo dell’implosione: unico superstite tra le ostili rovine di un mondo post-apocalittico che ha perduto di senso e significato. A metà dello scorso aprile, in concomitanza con la sua uscita, “Da Qui I Grattacieli Erano Meravigliosi” poteva inconsapevolmente proporsi come sonorizzazione in tempo reale dello sfacelo pandemico – delle metropoli svuotate dal di dentro, dei vulnus di un modello socioeconomico completamente fuori controllo, del pericoloso senso d’illusoria onnipotenza che ha soggiogato l’agire umano tra un monumento aere perennius e l’altro. Non c’è stato il cambio di passo che utopicamente ci si augurava e che, forse, avrebbe potuto allontanare il momento in cui, rivolti gli occhi al cielo, si sarebbero contemplate solo carcasse d’acciaio contro un orizzonte rosso fuoco: il che rende il messaggio ultimo del disco ancora più pertinente, ancora più fosco e realista.

Avvertenza ai naviganti: l’ascolto del quarto full length della one-man-band Cabeki, la più recente incarnazione del polistrumentista veronese Andrea Faccioli (Lecrevisse, Å, Einfalt…), merita tutta l’attenzione cui gran parte del neo cantautorato italiano – con cui peraltro Faccioli si è interfacciato negli anni trascorsi – ha da tempo scientemente deciso di rinunciare. E non perché si tratti, di per sé, di una proposta complessa: anzi, rispetto al capitolo precedente, l’ambizioso e paraorchestrale “Non Ce La Farai, Sono Feroci Come Bestie Selvagge” (2016), da cui comunque eredita il minutaggio essenziale, “Da Qui I Grattacieli Erano Meravigliosi” brilla di un lineare minimalismo strumentale (Faccioli suona tutto da solo: un’acustica registrata su quattro canali, un synth Animoog manovrato coi piedi per disegnare le melodie portanti, una drum machine a pedale Sound Master del 1982). A colpire è, semmai, la concettualità dell’operazione: una distopia in otto episodi che ad ogni shift narrativo abbina un disegno stilistico differente, con l’eclettismo di una finta colonna sonora per un orrorifico noir crepuscolare fin troppo conosciuto (e quindi mai girato). La complessione mediterranea che ingentilisce le chiazze seleniche del post rock sintetico di “Oscurati Dalle Nuvole” (esplicita la citazione floydiana) scivola, in un possente tramestio di trilli, nel meditativo arpeggiato di “Da Qui”, un Ben Chasny votato al candore espressivo: ugualmente, il valzer gotico da library primo settantiana di “Alberi Nel Deserto” spiana la strada all’acetato folk-blues di “Steli Di Cristallo”, d’impostazione moderatamente faheyiana. Su di tutto spira una persistente brezza di morte, un alito decadente che sembra increspare la superficie delle cose e corromperne l’essenza (“Al Futuro” è uno stornello popolaresco à la Egisto Macchi deformato da filtri industriali e rintronanti giochi di specchi), rivestendo di una patina inquietante anche l’apparentemente sognante chill out motorik di “Fra Cielo E Terra” (gli Aktuala rivisitati da L.U.C.A.) e trascinandosi sino alla sentita, pencolante sonata sommacaliana di chiusura (“Una Fragile Memoria”).

Detta in breve, il Cabeki del 2020 suona come l’esecutore di un testamento per i posteri che non vi saranno: il demiurgo di un altro-cosmo in cui preconizzare l’evoluzione del nostro mondo. Un luogo in cui “affilato” rimi a sinistra con “ispirato” e a destra con “disperato”. Disco duro, ma necessario.

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