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R Recensione

8/10

Glorytellers

Glorytellers

A volte ritornano.

Chi, fra voi astanti, si ricorda degli stupefacenti Karate? Abuserò anche dell’aforisma, ma il complesso di Geoff Farina è stato, senz’ombra di dubbio, fra i migliori degli anni ’90. Dischi imperdibili come “In Place Of Real Insight” (1997), prestazioni live ineccepibili, i bostoniani si sono consegnati alla storia per la loro musica, sospesa a metà fra le prime evoluzioni del germe post rock e splendide divagazioni jazzistiche: primordiali, tiepidi, magnificenti accenni di quello che, anni dopo, sarà orrendamente bollato dalla critica musicale come slow-core. Era comunque una favola troppo bella per poter durare a lungo, e il 2005, come da copione, è l’anno in cui se ne scrive la parola fine, causa seri impedimenti fisici del leader.

Alla luce di questi fatti stupisce moltissimo, dunque, risentire nuove, perlopiù ottime, dal fronte Farina. Insieme all’amico e collega batterista Jeffrey Goddard, già nella band madre, nasce il nuovo progetto dei Glorytellers. Il chitarrista statunitense opta per il sacrificio degli aspetti più squadrati e decisi del proprio percorso musicale, fissando la propria attenzione sulle costruzioni armoniche, sulle melodie graffianti, sulla semplicità degli intrecci strumentali, il più delle volte ridotti a sole voce e sei corde. È dunque, in linea di massima, un eburneo e soffuso jazz rock quello racchiuso negli aromi e nelle sensazioni di questi trentaquattro minuti (brevità, questa, certamente mutuata dai Karate).

Discreti sin dalla prima nota, intimi come vicini confidenti, ben lontani dalla teatralità e dalla sinuosità dei loro colleghi e diretti concorrenti Drift, i Glorytellers hanno, per ogni pezzo, un corollario di amara quotidianità da condividere con l’ascoltatore. I toni dimessi e malinconici di “Exclusive Hurricanes”, ballata folk che irradia vespri autunnali da ogni angolazione, fanno a pugni con la durezza del testo, sconfitto ed impotente quasi come il personaggio da esso tratteggiato (“I hope your enemy’s well”, canta Farina, prima di lanciarsi in fraseggi quasi blues). Ed ancora, il songwriting scarno e sbilenco di “Pry”, dissonante per ogni dove, aprirà varchi nella resistenza emotiva di chi, al tempo, amò Elliott Smith, anche e soprattutto concettualmente.

Lavorare per sottrazione, questo sembra essere il metodo vincente del combo (“Blood On The Shine”, bellissima). O, in mancanza di appigli sufficientemente resistenti, affidarsi esclusivamente al proprio estro: l’apertura, con “Camouflage”, parla per immagini, più che per liriche, e la chitarra acustica è il valore aggiunto, il proiettore di diapositive, il tornasole che misura lo stato di salute di una tinta seppia in magnifico sbiadire.

C’è qualcosa di più, tuttavia: un elemento misterioso, sia esso l’alchimia tra Farina e Goddard, sia la loro indubbia bravura interpretativa, sia intuizioni particolarmente felici (il ritornello corale di “Awake At The Wheel”) che fa risaltare, quasi come in controluce, tutte le qualità – tante – del disco, e lo distingue nella pletora di uscite più o meno similari. “Tears Of…” e “Quarantine” sono morbidi assaggi di country in destrutturazione, soft-jazz vellutato e caricato di una tristezza talmente percepibile da risultare fisica, palpiti di rock appena più potente e subito sedato da iniezioni college analgesiche. La seconda sperimenta anche tutta una serie di gemiti ritmici che, arrampicandosi gli uni sugli altri, le donano un aspetto vissuto, quasi roots.

Ma i Glorytellers riescono soprattutto in un’impresa dove moltissime band falliscono, con esiti spesso tragicomici: imparare. Imparare dalle proprie esperienze, dalle proprie lacune, anche dai propri errori: in questo, il side project Ardecore, sviluppato per anni da Farina con membri degli Zu, che puntava alla reinterpretazioni di canti popolari capitolini, ha lasciato un segno profondo nel bagaglio della sua nuova avventura. “Trovato Suono” è il pezzo perfetto: una finestra sul Tamigi visto attraverso due lenti sfumate, fra un italiano incerto e un inglese fluente, con numerosissimi cambi di tempo e melodia ed un arrangiamento superbo. Jazz rock indigeno che, all’occorrenza, sa parlare anche latino.

Queste sono dieci, piccole carezze. Ma toglietevi dalla testa che sia tutta una contrapposizione come le cantava Celentano: qui si sente più male che ad un knock out subito da Primo Carnera. E, tuttavia, non è sempre un male.

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Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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REBBY 5/10
CigarO 8/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 15:35 del 8 dicembre 2008 ha scritto:

Per me album anonimo. Anonymous il mio pezzo

preferito. Terribile Trovato suono!

CigarO (ha votato 8 questo disco) alle 23:28 del 9 dicembre 2008 ha scritto:

Bello...

Bello ma in effetti potrebbe passare inosservato nelle librerie musicali dei più. Personalmente piaciuto, ma con qualche forzatura (es.Trovato Suono: può piacere come no).