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R Recensione

7/10

Touchè Amorè

Parting The Sea Between Brightness And Me

“With that being said i won’t play pretend/ That i’m not growing up that i’m not giving in”

(da “Pathfinder”)

Per qualcuno la musica hardcore/punk è roba da ragazzini. Un rito di passaggio all’età adulta, intimamente legato al rifiuto di quest’ultima, al senso d’inadeguatezza che ne deriva. Uno sfogo momentaneo in cui si mescolano ribellione e commiserazione. Reportage esistenziali dalla “teenage wasteland”, come la chiamava Pete Townshend. Qualcosa, insomma, da consumare voracemente, digerire in fretta per poi guardare oltre, diventarne immuni e passare ad ascolti/generi più adatti a stimolare i nostri ormai sviluppati recettori psichici. Una pars destruens che spiana la strada ad una conoscenza più piena dello scibile musicale. Da rinnegare, presto o tardi, se non si vuole correre il rischio di sembrare un immaturo casinista del sabato sera in mezzo ad un branco di teenager che hanno ora l’età che avevi tu quando hai cominciato a familiarizzare con questa roba. C’è un fondo di verità, naturalmente, come in quasi tutti i luoghi comuni. Ma la questione non è così semplice. Specie se non si tengono nel dovuto conto due questioni: una di carattere psicologico, l’altra di tipo musicale. La prima è che quel senso di frustrazione potrebbe anche non andarsene mai, non importa quanti sforzi sociali si facciano per mascherarlo, e allora non resta che imparare a conviverci, a sublimarlo, proiettandolo all’esterno in una qualche forma spregiudicata e assertiva. Come fanno i gruppi hardcore (e dintorni), appunto. La seconda è che questo tipo di sonorità rappresentano un grande esercizio di scrittura minimalista, una palestra di quintessenziale espressività. È istintività compressa, domata, trasfigurata.

Queste considerazioni, ovvie ma non del tutto scontate, mi sono venute in mente ascoltando Parting The Sea Between Brightness And Me, il nuovo album (e secondo in assoluto) dei losangelini Touchè Amorè. La loro fulminea e accecante mistura di hardcore vecchia scuola, post-core e screamo racchiude un po’ il senso di quanto detto sopra. 13 canzoni per poco più di venti minuti di musica che, tuttavia, ti rimangono dentro a lungo. Il formato ultra-minimale, la scherma perfetta, riporta questo genere al grado zero ma al contempo gli conferisce un sensibile spessore melodico ed evocativo, straziante e disperato come un canto del cigno. Merito, soprattutto, della batteria ipercinetica e tecnicamente impeccabile di Elliot Babin, delle chitarre violente ma dal taglio pulito come i colpi d’ascia d’uno spietato boia interiore (Clayton Stevens e Nick Steinhardt) e della strepitosa performance vocale di Jeremy Bolm, un bolo di urla e lacrime che sforza amaramente le pareti della gola e viene risputato in faccia al mondo, autore di testi toccanti e autoflagellanti quasi degni del primo Henry Rollins. Le strutture sono piallate all’osso, lavorate di lima, senza nessun compiacimento: non c’è mai una parola che non sia necessaria, un bridge che duri più del dovuto, un ritornello ripetuto.

Un album che si ascolta in apnea, come una lunga suite fatta di scariche improvvise e convulsioni centripete, da cui trapela un incredibile senso di claustrofobia esistenziale e che trova il suo trittico ideale nei furibondi stop’n’go, nelle laceranti variazioni sottocutanee del trittico “Method Act” (“I got these issues that i can’t subscribe/ and i’m scared to talk to anyone for what they might prescribe”), “Face Ghost” (che cancella ogni sospetto d’estetismo post-adolescenziale nell’amara ironia del verso finale: “I’ve faith in us if we don’t self destruct”) e “The Great Repetition”. Che infiamma i traccianti a corrente alterna di “Wants Needs” e “Home Away From Here”, l’assalto tambureggiante e il micro-break arpeggiato di “Amends” (“For what it’s worth i’m sorry/ And at the end i swear i’m trying”). Nuotando al buio nel solco della luna fra noi e quello sprofondo subacqueo (e subconscio) che potrebbe inghiottirci da un momento all’altro.

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