R Recensione

5/10

Martina Topley Bird

The Blue God

Martina Topley Bird è una vecchia conoscenza: le parti vocali in dischi come Maxinquaye e Pre-Millennium Tension l’hanno resa celebre ancor prima di incidere una sola nota a suo nome, cosa che avvenne, peraltro, solo nel 2003 con il quinquennale Quixotic.

Se desse retta alle forzature pubblicistiche o alle congiunture onomastiche, l’uomo della strada, quello di Celentano che “apre il giornale e legge che…”, potrebbe facilmente arrivare alla conclusione che questo sia l’anno del trip-hop 2.0. Se, come diceva Agata Christie, tre indizi fanno una prova, allora eureka: dopo i portentosi Portishead e il tritatutto Tricky, ecco l’ex musa (e non solo, mi dicono) di quest’ultimo uscire allo scoperto con un disco apparentemente inneggiante ai brumosi anni ’90 che tanto ci stanno a cuore.

Tutta scena: perché i primi hanno optato per un suono tagliente e tetragono che poco ha a che vedere con la sonnambulica viscosità degli esordi, il secondo tira le somme della sua carriera con un mix di epifanie passatiste e arrendevolezze ruffiane fin troppo attuali e Martina alchimizza i residui sostrati “bristoliani” sventagliando l’intera tavola periodica del pop d’antan (dal synth al soul), deformando i 90’s attraverso la lente bifocale dei ’60 e degli ’80.

Così la Phoenix che, secondo copione, risorge dalle sue ceneri in apertura, più che alla liturgia dei beat lunghi fa pensare ad una specie di Madonna che, convertita a brava casalinga, fa tutto con le sue mani, anziché imbottirsi di botulino e produttori. Brividi “bristoliani” banditi. Si teme il peggio e invece Carnies coi suoi controtempi synth wave e le sue svenevolezze anni ’80 esalta la voce di Martina: sottile, flessuosa e acuminata come il fermaglio con cui la ladra fa scattare una serratura. Something To Say asperge acidità percussive e delicatessen industriali, Shangri-La, handclappin’ su dark pop da balera. Pregevoli preziosismi parentetici.

Ancora meglio: il dittico Baby Blue/Valentine, pop lounge furtivo ed insinuante intinto in un cocktail noir vagamente hazlewood-spectoriano e il glitch-blues psichedelico di Razor Tongue. Ma poco d’altro: il lezioso intermezzo Da da da da, che starebbe bene in un balletto sixties filmato da David Lynch, Poison, Sparkle Motion tipo “Donnie Darko”, Snowman, un dream pop lillipuziano, April Grove, una porcheria fra Blondie e Matia Bazar, Yesterday, micro-escandescenze dub-industriali.

Inclinazioni innate e innegabili annegate nel non sense. E un generale, pretenzioso senso di spreco e di futilità (produce Danger Mouse, suona e collabora “Money” Mark Nishita).

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Roberto Maniglio (ha votato 6 questo disco) alle 20:37 del 31 agosto 2008 ha scritto:

Chi cerca il trip-hop rimarrà deluso. Si tratta di pop-folk (con elettronica e tendenze soul) che supera la sufficienza.

Utente non più registrato alle 22:43 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

Cattivo, mi hai massacrato April Grove. Tanto carbone quest'anno ti porterà la befana incartapecorita.

Un album decisamente "pop". E anche di classe. Da wine-bar. Imprenditori siete avvertiti.

synth_charmer (ha votato 8 questo disco) alle 11:40 del 22 aprile 2010 ha scritto:

ma cattivo davvero! vedi? Uno cerca trip-hop (quindi ha delle aspettative), rimane deluso e stronca il disco, come per l'ultimo dei Massive Attack. A me il disco piace parecchio, Phoenix e April Grove sono le mie preferite. Lei dal vivo trasuda eleganza da tutti i pori (trasuda anche qualcos'altro, ma meglio glissare o la girl potrebbe arrabbiarsi ). Ma la tracklist che appare qui non si può sistemare?