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R Recensione

8/10

Villagers

Becoming A Jackal

Il mondo è pieno di sciacalli, basta guardarsi intorno. E c'entra mica il famoso Carlos, il terrorista internazionale, questa è gente comune, rispettabile persino, che trae nutrimento, forza e ricchezza dalle disgrazie altrui. Predatori che non hanno nemmeno il coraggio di guardare negli occhi di coloro che uccidono. Che preferiscono trincerarsi dietro il proprio branco. E spingere un bottone, firmare un licenziamento, un documento bancario, un verbale di polizia, battere un martelletto sul banco della giuria o promulgare una legge. Tanto non è mai colpa loro. Il mondo è una jungla, un far-west, e non si scende mai troppo in basso pur di sopravvivere. Sapete qual'è la differenza fra uno di questi sciacalli e una puttana? Che la puttana quando sei morto smette di fotterti. E non parlo solo de “le jene negli stadi e quelle nei giornali”, come Battiato, che sarebbe il minimo. Ma anche nella finanza, nella politica, nella cultura, nella musica, ai piani alti o nell'ufficio accanto al tuo. Sono come noi, in mezzo a noi, in qualche caso siamo noi, come direbbe Frankie (poi la finisco con le citazioni, promesso).

Diventare uomini è un po' come diventare sciacalli, dunque, e viceversa. Anzi, troppo spesso è la stessa cosa. Bella l'allegoria scelta da Conor J. O'Brein, mente e voce dei Villagers, come tema di questa sua fiaba di formazione nello stile, tipicamente inglese, dei Carroll, dei Barrie o, meglio ancora, dei Roald Dahl. Uno spicchio di mondo antropomorfo inquadrato attraverso gli occhi di un adolescente che si appresta a perdere innocenza e verginità. Ad entrare nel mondo degli adulti. A diventare uno sciacallo, appunto. Un concept album più volte annunciato come una delle uscite più calde ed interessanti dell'anno in ambito brit e non solo. Il disco di esordio di una band, nata dalle ceneri dei The Immediate (da cui proviene O' Brien), gruppo molto apprezzato in patria (Irlanda) dissoltosi dopo un solo incensato episodio, che a poco meno di due anni dalla sua nascita e avendo all'attivo solo un ep, Hollow Kind del 2009 ha già avuto riconoscimenti importanti, suonando dal vivo nei maggiori festival europei e di supporto a gente come Tindersticks e Neil Young (fra gli altri).

Becoming A Jackal è un opera prima che sa perfettamente come mantenersi all'altezza di tali aspettative, delineando scenari raffinati e pensili che guardano ai vari filoni aurei del pop albionico (dai concept in stile sixties, a quello neo-sinfonico, dall'indie al twee fino a quello acustico e cantautorale) in modo, si, romantico e nostalgico, ma anche fantasioso, obliquo, surreale. Con un talento melodico di prima scelta e una mano deliziosamente esile e leggera negli arrangiamenti. Sia quando è ora di tratteggiare un pop barocco da veglia funebre (I Saw The Dead) suonato al lume di mille candele (come quelle accese da Kubrick nella famosa scena di “Barry Lyndon”), sia quando si lancia in affondi retro-pop come la sbrigliata e kinksiana title track (frammenti di vera poesia nelle liriche e un ritornello di quelli che non dimenticherete facilmente), sia che sembri fare il verso ai primissimi U2 via Arcade Fire (Ship Of Promises) per poi aprirsi in una cortina onirica e orchestrale, quasi barrettiana, sia che dissimuli una vena quasi smithsiana nel crescendo piangente di That Day. Ma tutto il disco è un susseguirsi di momenti riusciti ed emozionanti come la straziante The Meaning Of Ritual traiettoria impossibile fra Will Oldham e i Divine Comedy, il magone acustico (piano e chitarra) del cucciolo di sciacallo ormai rassegnato al suo destino che attraversa la città in autobus (la carogna della vita adulta lo attende al capolinea) in compagnia dei ventisette estranei del titolo (Twenty Seven Strangers), il passo sfumato e trottante dei Belle & Sebastian in The Pact, uno Scott Walker disegnato come caricatura in un libro per l'infanzia nell'accorata Pieces.

Perché, a voler essere ottimisti, in fondo ad ogni sciacallo c'è un bambino che non vorrebbe mai crescere e smettere di dare ascolto alla propria coscienza. Di fare la cosa giusta.

C Commenti

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salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 16:34 del 8 giugno 2010 ha scritto:

Bella recensione, Simone. Dalle tre tracce, sembra molto interessante. Io ci sento un po' di bright eyes, anche. Approfondirò

simone coacci, autore, alle 19:00 del 8 giugno 2010 ha scritto:

Grazie Danny boy.

target (ha votato 7 questo disco) alle 22:42 del 8 giugno 2010 ha scritto:

Sìsì, anch'io ce lo sento l'altro Conor, qua e là ("Ship of promises", "Twenty Seven Strangers"), per quanto 'albionizzato', senza la bile rappresa ammmericana. Pure i temi post-adolescenziali, direi, sono in comune. Certo, qua c'è più varietà, una tradizione e un retroterra brit che di là mancano. E un bel potenziale talento, che di là sembra essersi perso. Proposta interessante! La prima impressione è che la seconda metà del disco sia più interessante della prima.

loson alle 18:34 del 10 giugno 2010 ha scritto:

Davvero molto interessante, ad un primo ascolto promette bene. L'influenza degli Arcade Fire è palese, ma stavolta ad essere scomodati sono gli Arcade più crepuscolari ("Home", "Pieces"), resi ulteriormente flemmatici da una sensibilità british piuttosto prominente. La voce è tremolante ma sicura, potente, a tratti si concede rari svolazzi alla Morrisey ("That Day", di cui viene giustamente notta la vena smithsiana). Lo stile prevede qualsiasi innesto (big music, organetti baroque, pop orchestrale) su una base che potrebbe definirsi "sophisti-folk" (non linciatemi!). Per il momento i brani più arcani e drammatici (una splendida "I Saw The Dead" che distilla Jack e Montgolfier Brothers, l'acustica spolpata di "Set The Tigers Free") sono quelli che mi hanno colpito di più, ma tutto il disco è un potenziale scrigno da esplorare a più riprese. Simone impeccabile, as usual.

tramblogy alle 19:37 del 10 giugno 2010 ha scritto:

spettacolo...

salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 11:05 del 11 giugno 2010 ha scritto:

Mi piace sempre di più... Aspetto per il voto, visto che l'indice di gradimento non si è ancora arrestato

synth_charmer (ha votato 7 questo disco) alle 0:18 del 13 giugno 2010 ha scritto:

bell'esordio, disco di spessore. Bravi ragazzi

gull (ha votato 7 questo disco) alle 15:57 del 6 luglio 2010 ha scritto:

Molto interessante. Gran belle canzoni (qualcuna un pò routinaria) e tante emozioni. Un esordio decisamente promettente.

bill_carson (ha votato 8 questo disco) alle 12:16 del 8 luglio 2010 ha scritto:

imperfetto, ma comunque tra i migliori dell'anno

REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 15:27 del 11 agosto 2010 ha scritto:

Per me si tratta di un esordio col botto, non solo

promettente. Una raccolta di canzoni immediate ed

al tempo stesso raffinate che, pur traendo linfa

(ovviamente) da proposte precedenti, hanno assunto una loro personalità e particolarità. Una

scaletta varia e bella dall'inizio alla fine.

Songwriting, arrangiamenti ed interpretazione

vocale di livello "superiore" e di pari dignità.

E' più di un mese che quest'album mi tiene

compagnia ed è entrato nella mia "selezione 2010",

e penso che difficilmente ne uscirà. Un'opera

"normale", apparentemente semplice, ma che esprime grande eleganza e talento. Chapeau!

sarah alle 10:02 del 12 agosto 2010 ha scritto:

Veramente accattivante la recensione, me lo procurerò presto.

hiperwlt (ha votato 8 questo disco) alle 12:20 del 22 agosto 2010 ha scritto:

per quanto mi riguarda, esordio brillante e pieno di personalità. "becoming a jackals" mi è parsa già classica al primissimo ascolto; "pieces" (la mia preferita, insieme ad "home" e "to be counted among men") istantanea frantumata del passato, ha dalla sua un fraseggio strumentale morbido, ma che "contiene" l'incalzare di un'irrequietezza che sfocia, sul tratto finale, in un crescendo forte e lineare degli archi (e di ululati)...bellissima; "ship of promises" presenta una componente "ritmica" che non sfigurerebbe in un pezzo degli animal collective; "to be counted among men" mi ha ricordato il chesnutt di "at the cut" (a tratti l'interpretazione "granny"); "that day" è proprio una droga (!), di netta derivazione smithsiana, come già fatto notare. tutto questo per mettere in luce l'assoluta varietà stilistica di o'brien and co! 8

teomusic (ha votato 8 questo disco) alle 21:05 del 15 settembre 2010 ha scritto:

Bello ... secondo me dovrebbe stare un po' piu' in alto in classifica ...

morrocoy68 (ha votato 8 questo disco) alle 15:54 del 14 settembre 2011 ha scritto:

Un disco da brividi, anche a riascoltarlo dopo un pò non perde la sua intensità. Sorvolo sulle similitudini contemporanee e segnalo solo una tra le più limpide fonti originali di ispirazione - secondo me ovviamente - dell'ottimo Conor: Paddy McAloon e i suoi delicati Germogli Prefabbricati