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10/10

Jacques Brel

Brel (Les Marquises)

Un amico sostiene che la passione per gli chansonnier sia il non plus ultra in termini di snobismo musicale. E a me sta benone: in qualcosa bisognerà pur risultare snob e vanitosi, quindi accetto con piacere la sfida. Adoro Jacques Brel esattamente come il primo giorno in cui mi capitò di ascoltare "La Chanson des Vieux Amants" e "Amsterdam", due testamenti, due saggi del suo romanticismo disperato e della sua leggendaria capacità di piegare l'animo umano alle sue pulsioni letterarie e musicali.

Mi compiaccio della sua ars poetica, della sua naturale predilizione per un linguaggio colloquiale e carico di empatia, amplio nel lessico ma soprattutto immaginifico.

Anche io vorrei essere in grado di épater le bourgeois. E continuo a riconoscermi nella sua amara ironia, a venerare le sue discontinue scorribande vocali, le sue cascate di immagini e di suoni interiori, i suoi guizzi introspettivi, i suoi oscuri paesaggi urbani. Ammiro il suo sincero impegno sociale che non scade mai nella propaganda e che rifugge l'ortodossia. Ammiro anche il suo sarcasmo pungente e iconoclasta.

Se analizziamo la mappa degli artisti, dei generi e dei movimenti che hanno subito il fascino del belga anarchico, non ci resta che sgranare gli occhi.

Brel (classe 1929) nasce distante anni luce (in temini geografici e culturali) dal mondo del rock e del pop, eppure ne plasma le fondamenta. Le sue opere, radicate nel suo solenne esistenzialismo, impreziosite dal suo vissuto personale, pregne di teatralità esibita, eversive ma velate di umorismo, hanno ispirato intere generazioni di musicisti.

Doveroso ricordare Scott Walker e la sua grandeur vocale. Semplice anche citare Leonard Cohen, David Bowie, Brian Ferry, Jarvis Cocker, Marc Almond, gli Associates, i Japan, il Nick Cave più maturo.

Potremmo proseguire a lungo, anche varcando il confine di Ventimiglia: il primo, oscuro Gino Paoli; il melodramma di Piero Ciampi e quello, non meno intenso, di Tenco.

Ma anche il cromatismo barocco di "Tutti Morimmo a Stento" (l'amore di Faber per i cantautori d'oltralpe è sin troppo noto; certo, più Brassens che Brel), i gustosissimi scherzi del Signor G (che coverizza a suo modo Brel in più occasioni).

A proposito di cover: Patty Pravo, Bruno Lauzi, Franco Battiato, Roberto Vecchioni, Nina Simone.

Cosa ha reso Jacques tanto speciale? Oggi la sua musica suona così lontana, sembra soffrire di impotenza ritmica rispetto al rock e alle sonorità contemporanee.

I suoi affreschi sembrano immobili, immutabili, imbalsamati nella loro aurea perfezione, un filo ampollosi e affabulatori, persi nella foschia che lascia affiorare tromboni, violini, intere sessioni d'orchestra.

"Per assenza del vento il tempo si immobilizza": è proprio un verso del brano "Les Marquises" a rendere perfettamente l'idea delle immagini solenni evocate dalle sue tavolezze di suoni e di timbri.

Un wall of sound vagamente imparentato con la musica classica, ma che vuole collocarsi più "in basso" sulla scala gerarchica dell'esistenza, più vicino alle gongolanti vibrazioni dell'arte popolare e della poesia/chanson di lingua francese. Un linguaggio intrecciato con le colonne sonore e con la cinematografia, altro luogo dove l'arte di Jacques ha saputo seminare e raccogliere in abbondanza.

Si intravede una sorta di stasi che canalizza tutta l'attezione verso la ricerca di un'espressività prepotente (Brel è anche attore consumato, e inevitabilmente si nota): quasi che due note di flauto, una breve successione di accordi di chitarra, le scudisciate degli archi o i possenti soli dei fiati servissero solo a enfatizzare la dimensione letteraria e narrativa della sua opera.

Il Grand Jacques era un superbo narratore, forse è per questo che lo adorano in tanti: si calava dentro i suoi personaggi, ne assorbiva l'energia, le grida, le pulsioni. La sua interpretazione si immerge a tal punto nella composizione da diventare un pezzo unico, quasi che Brel creasse nel momento stesso in cui cantava, appropriandosi di ogni sillaba e di ogni sentimento con tutta la sua "feroce umiltà".

Brel lo amiamo anche perché ha dedicato la sua esistenza a nobilitare le storie più umili, a ricordarci che quei corpi distesi sui marciapiedi che spesso superiamo nella più totale indifferenza sono umani esattamente come noi. Ha saputo picconare il potere, i suoi rituali e la sua arroganza con l'aria candida e determinata di chi può permetterselo, per aver vissuto sulla pelle (in famiglia) le stesse feroci umiliazioni.

Anche in questo Jacques fu un esempio: pensiamo a Gaber che si perde nei bassifondi di Milano, a De Andrè che celebra impiccati e anime perse, al Cocker ambizioso che dedica un album intero (imbevuto di sarcasmo) all'antagonismo di classe.

Ma veniamo al disco in questione: "Brel (Les Marquises)" esce nel 1977, dopo una lunghissima pausa riflessiva, ed è destinato a rimanere la sua ultima pubblicazione, perché la Signora con la falce lo aspetta da un pezzo a non tarderà a completare il lavoro.

E' un lavoro di impressionante maturità, un saggio della sua immutata abilità di chansonnier, un poderoso commiato incorniciato da un sottile velo di malinconia.

E' strano pensare che abbia visto la luce nell'anno del punk e della disco-music, anche se si intravedono squarci ritmichi che sono puro funk elettrico, accostati a languidi accordi ispanici (la musica latina era una vera e propria ossessione di Jacques, e si infiltra molto spesso nelle sue composizioni), oltre che a figure ritmiche mutuate dal tango argentino (altra passione mai sopita).

Il primo pezzo, "Jaurès", omaggia l'omonimo politico socialista francese, il leader che cercò in ogni modo di escludere la Francia dalla Grande Guerra, pagando con la vita. Le simpatie di Jacques erano note, e il suo ricordo risulta accorato, felpato e gravido di riconoscenza, mentre cammina sopra un tappeto di ottoni che pare immobilizzato dentro una fotografia (a proposito di ritmo che sembra non esistere): un uomo che ama gli altri uomini deve essere di sinistra, affermò Jacques in una celebre intervista, e non sta a me decidere se avesse ragione o meno.

Sta di fatto che, come molti fra i più grandi, Jacques non aveva paura di esporsi in prima persona, pur adottando sempre un atteggiamento sfumato e poco ortodosso rispetto a etichette e simboli, come tutti gli atipici (tant'è vero, che sin dagli anni '50, anche il radicato nazionalismo dei francesi e del Belgio di lingua latina cercò di trasformarlo in un simbolo).

"La ville s'endormait" è austera e specchiata: il suo impareggiabile valore sta nel testo descrittivo ed impressionista, oltre che nei languori degli archi. Jacques assembla immagini suggestive senza sforzo, cristallizza il flusso di tutte le vite risucchiate dalla città e ne celebra l'immenso silenzio.

"El bon dieu" pretende tutta la nostra attenzione, perché Jacques si interroga sul rapporto fra uomo e divinità: ne sovrappone le figure, e poi si schiera apertamente dalla parte dell'umanità e della sua fallibilità. Musicalmente il brano è un walzer, e si dipana in un arco melodico che ruota intorno a due terzine in crescendo, lungo un tema mesto ma solenne.

"Voir Un Ami Pleurer" incastra un testo eccezionale, che sviluppa l'ennesima riflessione universale sul (dis)valore della guerra come offesa all'umanità tutta, ma anche sul controverso ruolo dell'amicizia. L'accompagnamento del pianoforte è ricco di sfumature, Jacques al solito divora e rigurgita ogni parola, ogni sensazione, ogni nota. Solo lui può raccontare di un amico mentre ricorda le guerre d'Irlanda.

"Les f....." fa i conti con la modernità: un lussuoso arrangiamento funk jazzato, con basso e fiati in prima linea, e ritmi iberici. Un pezzo scanzonato e divertito che spezza la sottile malinconia del disco, e per questo suona preziosissimo.

Altrettanto giocosa e irresistibile è "Les Remparts de Varsovie": Jacques riscopre il ruolo dell'enfasi ritmica e del ballo, e il suo disegno melodico, fortemente accentato, è forse il più accattivante dell'opera. "JoJo" è una ballata suadente, ultimo saggio del romanticismo impareggiabile del cantautore, forte dell'empatia di chi sperimenta sulla propria pelle sia la Storia del mondo che una "semplice" storia d'amore.

La traccia che dà il titolo all'album è il gentile commiato del genio all'umanità tutta: Jacques intravede lo spettro della fine e le va incontro cantando, laggiù a "Les Marquises" (isole della Polinesia), dove non esiste il vento, dove "si parla della morte come tu parli di un frutto".

L'accompagnamento orchestrale è carico di tensione, struggente, si inabissa dentro mari plumbei per non fare più ritorno.

Lo confesso: mi ha fatto scendere una lacrima, al primo ascolto. Perché ti lascia l'impressione di aver perso qualcosa di troppo prezioso per essere vero.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 4 voti.
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Paolo Nuzzi (ha votato 9,5 questo disco) alle 10:27 del 19 febbraio 2014 ha scritto:

Recensione meravigliosa, l'ho letta rapito tutta d'un fiato. Le grand Jacques è stato immenso e il disco in questione il suo capolavoro, il suo commiato in musica. Complimenti vivissimi.