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R Recensione

7/10

Neko At Stella

Shine

Prima di leggere Absolutely Nothing (Quodlibet, 2016), meraviglioso ed irreale resoconto odeporico nell’America celata allo sguardo (lustrini e miserie, deserti e metropoli, scalcagnati motel di periferia e scenografiche ghost towns), non ero mai venuto a contatto con la scrittura profonda ed esistenziale del palermitano Giorgio Vasta. Molti sono i passaggi del libro degni di essere letti, riletti e a lungo meditati, ma uno in particolare ha catturato la mia attenzione: quello in cui l’autore, diretto verso un ippodromo abbandonato a una ventina di miglia da Phoenix, si rende conto che “a far risaltare il deserto sono i tentativi di contraddirlo […] Senza mai essersene andato, ritorna: consuma, disgrega, si infiltra, sommerge; non importa dopo quanto tempo – il deserto ha tutto il tempo che serve” (op. cit., p. 69). È il tempo o, per meglio dire, il suo controllo, a conferire alla tetragona stolidità del deserto l’autorità di cui necessita: quel tempo che ci illudiamo di dominare e da cui, invece, siamo costantemente travolti, trascinati, sommersi.

Lungi dall’essere semplice suggestione sinestetica, lo spazio astratto ed irreale del deserto è materia pulsante di cui è intrecciato l’interplay del power trio toscano Neko At Stella: un immaginario che perde i suoi connotati iconici per reificarsi in un’entità concreta e tangibile. Così il secondo full lengthShine”, non sorprendentemente, del deserto è figlio e compagno, sonorizzazione ed incarnazione: qualcosa che annulla le distanze geografiche tra il Rancho de la Luna e la controra della Sicilia araba. La particolare conformazione della line up – che al canonico basso sostituisce l’organo e il piano elettrico di Roberto Pecorale – favorisce l’articolazione di un romanzo breve sul tema assai meno prevedibile del consueto: così, ad una “White” che erige un poderoso muro di suono stoner con tanto di forsennate slide e cowbell al seguito (i Fu Manchu in dialogo con i Queens Of The Stone Age di vent’anni fa), si contrappongono gli intontiti sbrilluccichii anfetaminici di “Victims” (un ululato garage più doorsiano dei Doors), il mantra velvettiano al peyote di “The Desert Comes” e l’oscuro minimalismo cajun di “Put It Down” (che dà il meglio di sé nella fremente, spasmodica costruzione in punta d’arpeggio). È questo ciondolare nell’attesa, insieme paziente ed indolente, che si prende i propri tempi minimizzando lo scorrere del tempo, ad esaltare le dolenti e misteriche ballate blues (certe sovrastrutture strumentali in coda ad una classicissima “Devil To Pray” profumano di prog, una versione cinematica dei momenti più distesi degli Across Tundras), penalizzando per converso i frangenti più tirati (“Last Nite Boogie” indovina il cambio di passo conclusivo, ma per il resto è una scarica r’n’r senza infamia né lode). Si giunge infine al brillante ibrido di “A Soul Full Of Dust”, un cenotafio di rumorosissime chitarre desert-gaze che vegliano sul cadavere di un lamento folk-blues à la Movie Star Junkies: brano, nella sua imperturbabilità, assai centrato ed evocativo.

Monolitico come un batolite, imprevedibile come un tumbleweed: che la luce di “Shine” filtri tra i corpuscoli di polvere e splenda alta sopra le dune.

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