Neko At Stella
Shine
Prima di leggere Absolutely Nothing (Quodlibet, 2016), meraviglioso ed irreale resoconto odeporico nellAmerica celata allo sguardo (lustrini e miserie, deserti e metropoli, scalcagnati motel di periferia e scenografiche ghost towns), non ero mai venuto a contatto con la scrittura profonda ed esistenziale del palermitano Giorgio Vasta. Molti sono i passaggi del libro degni di essere letti, riletti e a lungo meditati, ma uno in particolare ha catturato la mia attenzione: quello in cui lautore, diretto verso un ippodromo abbandonato a una ventina di miglia da Phoenix, si rende conto che a far risaltare il deserto sono i tentativi di contraddirlo [ ] Senza mai essersene andato, ritorna: consuma, disgrega, si infiltra, sommerge; non importa dopo quanto tempo il deserto ha tutto il tempo che serve (op. cit., p. 69). È il tempo o, per meglio dire, il suo controllo, a conferire alla tetragona stolidità del deserto lautorità di cui necessita: quel tempo che ci illudiamo di dominare e da cui, invece, siamo costantemente travolti, trascinati, sommersi.
Lungi dallessere semplice suggestione sinestetica, lo spazio astratto ed irreale del deserto è materia pulsante di cui è intrecciato linterplay del power trio toscano Neko At Stella: un immaginario che perde i suoi connotati iconici per reificarsi in unentità concreta e tangibile. Così il secondo full length Shine, non sorprendentemente, del deserto è figlio e compagno, sonorizzazione ed incarnazione: qualcosa che annulla le distanze geografiche tra il Rancho de la Luna e la controra della Sicilia araba. La particolare conformazione della line up che al canonico basso sostituisce lorgano e il piano elettrico di Roberto Pecorale favorisce larticolazione di un romanzo breve sul tema assai meno prevedibile del consueto: così, ad una White che erige un poderoso muro di suono stoner con tanto di forsennate slide e cowbell al seguito (i Fu Manchu in dialogo con i Queens Of The Stone Age di ventanni fa), si contrappongono gli intontiti sbrilluccichii anfetaminici di Victims (un ululato garage più doorsiano dei Doors), il mantra velvettiano al peyote di The Desert Comes e loscuro minimalismo cajun di Put It Down (che dà il meglio di sé nella fremente, spasmodica costruzione in punta darpeggio). È questo ciondolare nellattesa, insieme paziente ed indolente, che si prende i propri tempi minimizzando lo scorrere del tempo, ad esaltare le dolenti e misteriche ballate blues (certe sovrastrutture strumentali in coda ad una classicissima Devil To Pray profumano di prog, una versione cinematica dei momenti più distesi degli Across Tundras), penalizzando per converso i frangenti più tirati (Last Nite Boogie indovina il cambio di passo conclusivo, ma per il resto è una scarica rnr senza infamia né lode). Si giunge infine al brillante ibrido di A Soul Full Of Dust, un cenotafio di rumorosissime chitarre desert-gaze che vegliano sul cadavere di un lamento folk-blues à la Movie Star Junkies: brano, nella sua imperturbabilità, assai centrato ed evocativo.
Monolitico come un batolite, imprevedibile come un tumbleweed: che la luce di Shine filtri tra i corpuscoli di polvere e splenda alta sopra le dune.
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