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R Recensione

5,5/10

Mike & The Melvins

Three Men And A Baby

Perché i Melvins dovrebbero rilasciare, a diciassette anni di distanza dalla sua registrazione, un disco inedito in tandem con Mike Kunka degli ormai obliati godheadSilo? Ipotesi numero uno: se ne sono semplicemente dimenticati. Facilona, siamo d’accordo, ma non ci si potrebbe stupire se ci fosse un fondo di verità. Ipotesi numero due: la bulimia incontrollata (-abile) di cui King Buzzo sembra soffrire da ormai qualche tempo ha qui incontrato la necessità di sfruttare ogni pertugio monetizzabile che il mercato possa offrire. Nuda e cruda ma, ahinoi, non escludibile a priori. Ipotesi numero tre: nella trilogia magica del biennio di fuoco 1999-2000 (“The Maggot”, “The Bootlicker”, “The Crybaby”), “Three Men And A Baby” sarebbe suonato semplicemente come un in più, come qualcosa fuori posto. Questo è l’anello debole del lotto: la tesi appare poco convincente perché presuppone una sobrietà formale e contenutistica che è lontana anni luce dal modo di porsi dei magnifici tre (+ eventuali) di Montesano, Washington. Ipotesi numero quattro, allora: la ciambella non era riuscita col buco ed i Melvins, di un disco del genere, non sapevano che farsene. Non solo il principio di non contraddizione con le rimanenti asserzioni viene rispettato, ma il valore di verità di quest’ultima è destinato, fatalmente, a spiccare sulle altre.

Trattasi di lavoro lungo “classico” da archiviarsi sotto la nutritissima lista delle varie ed eventuali: la produzione è sporca e granulosa, gli incontri-scontri strumentali impastati, le frequenze perennemente basse. L’impatto, quando i brani sono messi a fuoco, non lascia scampo all’ascoltatore. “Chicken’n’Dump” spruzza fuzz a iosa su di un cartonato sabbathiano più vero del vero: “Pound The Giant” è grunge metallizzato, suonato da una banda di impenitenti e mai pentitisi hardcorer; in “Read The Label (It's Chili)” le chitarre affilatissime dei Tad si intrecciano al basso dei Tool di “Undertow”. Le deviazioni dal canovaccio madre – tanto più apprezzate perché decisamente sporadiche – si esauriscono nei tempi dispari dello psych-sludge “potabile” di “Limited Teeth” e nella possente, coriacea ritmica della successiva “Bummer Conversation”. L’identità del materiale, ottimo per un extended play (anche se tendente ad un’omogeneità che sfocia spesso nella sovrapposizione), viene poi annacquata dalla consueta trafila di stranezze gratuite: una cover stolida e testardamente monocroma di “Annalisa” dei P.I.L., l’hip hop al ralenti di “Dead Canaries”, il recital da stadio della marziale “A Friend In Need Is A Friend You Don't Need” (inutile ben prima di “The Water Glass”…), la psichedelia terminale di “A Dead Pile Of Worthless Junk”, il grindcore furibondo e sporchissimo di “Art School Fight Song” (roba così lasciamola agli Anal Cunt!).

Utile ai fini statistici, come mattonella aggiuntiva di una casa-museo Melvins ormai divenuta cantiere perenne, “Three Men And A Baby” non offre alcun reale motivo di interesse. Una convinzione, forse, ipotesi numero cinque: che la creatura di King Buzzo (nuovamente in pista, tra un mesetto, con l’autoironico “Basses Loaded”) non abbia bisogno di questi eccentrici memorabilia per gridare al mondo di essere ancora viva.

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