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R Recensione

7/10

JuJu

Our Mother Was A Plant

Ci hanno già provato in tutti i modi, a definire incasellare classificare obiettivare l’esperienza della neo psichedelia italiana (quanto neo?), impresa tanto dispendiosa quanto discutibile e, a conti fatti, persino futile: anche perché, in un simile campo minato, il disco in grado di far saltare gli schemi precostituiti è sempre in agguato. Il sabotatore di turno è Gioele Valenti, un nome ben conosciuto su queste sponde, anche se mimetizzato di volta in volta dietro vari pseudonimi (il deus ex machina di Herself, la voce supplementare di Lay Llamas). La ragione sociale del suo comeback discografico merita una particolare attenzione: a ripresentarsi sulle scene è, questa volta, l’alter ego JuJu, tra gli act più particolari ed interessanti di una scena di per sé polifonica ed eterogenea. A due anni di distanza dall’omonimo esordio per Sunrise Ocean Bender, Valenti fa armi e bagagli e si trasferisce a Londra, nella prestigiosa casa di Fuzz Club, per il cui roster esce oggi “Our Mother Was A Plant”.

Il fil de rouge concettuale che lega assieme i brani del disco – lo stesso Valenti ne parla come di un accorato appello a ritrovare, attraverso la musica, l’unità tra gli uomini e, per diretta conseguenza, la simbiosi tra uomo e natura, da qui il titolo – attraversa e sintetizza almeno tre decenni sonori (sommariamente: psichedelia californiana, motorik, etno jazz), fondendoli in un unico blocco dallo spessore importante. Il modus operandi potrebbe ricordare quello dei Goat (l’ostinato di basso e vibrafono che detta il tempo nell’afrobeat di “I Got Your Soul”, alternando le prime tre sezioni in 6/8 con l’ultima in 9/8, richiama i tropicalismi dell’ultimo “Requiem”): e difatti, ospite non discreto in due brani, c’è proprio Capra Informis, djembista del collettivo svedese con all’attivo due piccole produzioni soliste (il 12” “Womb Of The Wild” del 2015 e il 7” “Tunnels Of Qliphoth” di quest’anno, entrambi per Rocket). Il primo featuring è nell’acid rock tribale di “In A Ghetto”, un garum circolare reso ossessivo dalla prominenza ritmica (con il riff di chitarra che sembra quasi rileggere “Lust For Life”): il secondo arriva solo alla fine, nella bolla di luce che circonda gli arpeggi di “Sunny After Moon”, prima che le trame lievitino e tramutino il brano in un nervoso sobbollire kraut.

I pezzi sono generalmente lunghi, quando non molto lunghi (la jam “What A Bad Day”, coriaceo heavy psych su basso granitico che si regala addirittura delle punteggiature di sax in coda, lo è un po’ troppo), consentendo a Valenti di dispiegare un armamentario strumentale tutt’altro che comune (una frastornante zurna in “In A Ghetto”, percussioni metalliche e beat elettronici nella noise-wave di “And Play A Game”). Due i segmenti, passateci il termine, più palatabili: buoni i rintontimenti Dead Skeletons del mantra “James Dean” (con ariose aperture psichedeliche per tastiera), ancora migliore il sudicio funk metallico di “Patrick” (che si concede addirittura un assolo, seppur contenuto). Ma tutto il disco, al netto di qualche esagerazione – come le gratuite improvvisazioni floydiane sul metronomo battente dell’iniziale “Death By Beautiful Things” – è all’altezza della situazione: prodotto d’artigianato sì, ma dal respiro assolutamente internazionale.

Nel genere, di gran lunga il migliore dell’anno.

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