JuJu
Our Mother Was A Plant
Ci hanno già provato in tutti i modi, a definire incasellare classificare obiettivare lesperienza della neo psichedelia italiana (quanto neo?), impresa tanto dispendiosa quanto discutibile e, a conti fatti, persino futile: anche perché, in un simile campo minato, il disco in grado di far saltare gli schemi precostituiti è sempre in agguato. Il sabotatore di turno è Gioele Valenti, un nome ben conosciuto su queste sponde, anche se mimetizzato di volta in volta dietro vari pseudonimi (il deus ex machina di Herself, la voce supplementare di Lay Llamas). La ragione sociale del suo comeback discografico merita una particolare attenzione: a ripresentarsi sulle scene è, questa volta, lalter ego JuJu, tra gli act più particolari ed interessanti di una scena di per sé polifonica ed eterogenea. A due anni di distanza dallomonimo esordio per Sunrise Ocean Bender, Valenti fa armi e bagagli e si trasferisce a Londra, nella prestigiosa casa di Fuzz Club, per il cui roster esce oggi Our Mother Was A Plant.
Il fil de rouge concettuale che lega assieme i brani del disco lo stesso Valenti ne parla come di un accorato appello a ritrovare, attraverso la musica, lunità tra gli uomini e, per diretta conseguenza, la simbiosi tra uomo e natura, da qui il titolo attraversa e sintetizza almeno tre decenni sonori (sommariamente: psichedelia californiana, motorik, etno jazz), fondendoli in un unico blocco dallo spessore importante. Il modus operandi potrebbe ricordare quello dei Goat (lostinato di basso e vibrafono che detta il tempo nellafrobeat di I Got Your Soul, alternando le prime tre sezioni in 6/8 con lultima in 9/8, richiama i tropicalismi dellultimo Requiem): e difatti, ospite non discreto in due brani, cè proprio Capra Informis, djembista del collettivo svedese con allattivo due piccole produzioni soliste (il 12 Womb Of The Wild del 2015 e il 7 Tunnels Of Qliphoth di questanno, entrambi per Rocket). Il primo featuring è nellacid rock tribale di In A Ghetto, un garum circolare reso ossessivo dalla prominenza ritmica (con il riff di chitarra che sembra quasi rileggere Lust For Life): il secondo arriva solo alla fine, nella bolla di luce che circonda gli arpeggi di Sunny After Moon, prima che le trame lievitino e tramutino il brano in un nervoso sobbollire kraut.
I pezzi sono generalmente lunghi, quando non molto lunghi (la jam What A Bad Day, coriaceo heavy psych su basso granitico che si regala addirittura delle punteggiature di sax in coda, lo è un po troppo), consentendo a Valenti di dispiegare un armamentario strumentale tuttaltro che comune (una frastornante zurna in In A Ghetto, percussioni metalliche e beat elettronici nella noise-wave di And Play A Game). Due i segmenti, passateci il termine, più palatabili: buoni i rintontimenti Dead Skeletons del mantra James Dean (con ariose aperture psichedeliche per tastiera), ancora migliore il sudicio funk metallico di Patrick (che si concede addirittura un assolo, seppur contenuto). Ma tutto il disco, al netto di qualche esagerazione come le gratuite improvvisazioni floydiane sul metronomo battente delliniziale Death By Beautiful Things è allaltezza della situazione: prodotto dartigianato sì, ma dal respiro assolutamente internazionale.
Nel genere, di gran lunga il migliore dellanno.
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