JuJu
Maps And Territory
Pillole di neopsichedelica geografia culturale: mappe come espressione di unegemonia politica e ideologica di un territorio, di uno spazio fisico o semiotico; segni su una carta che esercitano un potere performativo e tentano, con la loro stessa esistenza, di ingabbiare e definire ciò che è soggetto ad aperto e perpetuo mutamento. Dietro il verde terrigno e lazzurro rugginoso della copertina disegnata dal batterista dei Sonic Jesus Marco Baldassari cè, è il caso di dirlo, un mondo: un concetto che, in anni di porti chiusi e fili spinati, di revisione sovranista dellantiglobalismo e di generalizzata scomparsa di ogni legante sociale, si fa tragicamente cogente. Non lascia nulla al caso Gioele Valenti, giunto con Maps And Territory al terzo disco col monicker JuJu, il secondo consecutivo per la londinese Fuzz Club dopo il buon Our Mother Was A Plant (2017): è questo un progetto che vive di (e si sviluppa sulla) compenetrazione artistico-ideologica, ovvero sulla comparazione fra nuclei argomentativi e movimenti stilistici, in un procedere dialettico che sintetizza in nuove forme i contenuti (teorici, musicali) delle prove precedenti.
Rimasta intatta la cura nella scrittura e nella produzione dei brani (solo sei, ma tutti piuttosto corposi), Valenti incorpora nel proprio discorso una serie di nuove ed interessanti suggestioni. Stimolante è, ad esempio, il ruolo di protagonista ritagliatosi dal sax baritono dellospite Amy Denio nellestesa narrazione jazz-noir di Arcontes Take Control, una mini suite che, tra infatuazioni world e impenetrabili fluttuazioni sintetiche, propone un approccio alla psichedelia parallelo a quello degli ultimi Julies Haircut. If You Will Fall, col suo martellante ostinato di basso, sembra allinizio il ricordo più vivido del precedente full length: col passare dei minuti, tuttavia, il suono si stratifica, le chitarre si solidificano e landamento mantrico del brano viene franto da turbinanti accenti Spiritualized. Motherfucker Core, infine, deframmenta il kraut alla maniera dei Primal Scream della stagione novantiana di Madchester: un regalo inatteso. È una triade di alto livello, incidentalmente il gruppo di canzoni più lunghe dellintero disco, che ridimensiona limpatto di quanto precede e segue: in particolare, dotato di buone dinamiche ma non indimenticabile lafro-fuzz di Im In Trance (che si staglia sul bordone dorgano e sulle percussioni aggiuntive gentilmente prestate da Goatman dei Goat), che in God Is A Rover tende verso un solare saggio di indie-psych canadese dal volume vagamente orchestrale (e dalle ambizioni non commisurate al risultato finale).
Sbavature, soggettive, di un altro disco di livello oggettivo, anche se qui e lì tentato anche nella ricerca di nuove vie espressive dalla standardizzazione. Per ampiezza di visuale e densità di contenuti, comunque, JuJu rimane uno dei cavalli della neo psichedelia italiana su cui puntare con maggior convinzione nei prossimi tempi.
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