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R Recensione

7/10

JuJu

Maps And Territory

Pillole di neopsichedelica geografia culturale: mappe come espressione di un’egemonia politica e ideologica di un territorio, di uno spazio fisico o semiotico; segni su una carta che esercitano un potere performativo e tentano, con la loro stessa esistenza, di ingabbiare e definire ciò che è soggetto ad aperto e perpetuo mutamento. Dietro il verde terrigno e l’azzurro rugginoso della copertina disegnata dal batterista dei Sonic Jesus Marco Baldassari c’è, è il caso di dirlo, un mondo: un concetto che, in anni di porti chiusi e fili spinati, di revisione sovranista dell’antiglobalismo e di generalizzata scomparsa di ogni legante sociale, si fa tragicamente cogente. Non lascia nulla al caso Gioele Valenti, giunto con “Maps And Territory” al terzo disco col monicker JuJu, il secondo consecutivo per la londinese Fuzz Club dopo il buon “Our Mother Was A Plant” (2017): è questo un progetto che vive di (e si sviluppa sulla) compenetrazione artistico-ideologica, ovvero sulla comparazione fra nuclei argomentativi e movimenti stilistici, in un procedere dialettico che sintetizza in nuove forme i contenuti (teorici, musicali) delle prove precedenti.

Rimasta intatta la cura nella scrittura e nella produzione dei brani (solo sei, ma tutti piuttosto corposi), Valenti incorpora nel proprio discorso una serie di nuove ed interessanti suggestioni. Stimolante è, ad esempio, il ruolo di protagonista ritagliatosi dal sax baritono dell’ospite Amy Denio nell’estesa narrazione jazz-noir di “Arcontes Take Control”, una mini suite che, tra infatuazioni world e impenetrabili fluttuazioni sintetiche, propone un approccio alla psichedelia parallelo a quello degli ultimi Julie’s Haircut. “If You Will Fall”, col suo martellante ostinato di basso, sembra all’inizio il ricordo più vivido del precedente full length: col passare dei minuti, tuttavia, il suono si stratifica, le chitarre si solidificano e l’andamento mantrico del brano viene franto da turbinanti accenti Spiritualized. “Motherfucker Core”, infine, deframmenta il kraut alla maniera dei Primal Scream della stagione novantiana di Madchester: un regalo inatteso. È una triade di alto livello, incidentalmente il gruppo di canzoni più lunghe dell’intero disco, che ridimensiona l’impatto di quanto precede e segue: in particolare, dotato di buone dinamiche ma non indimenticabile l’afro-fuzz di “I’m In Trance” (che si staglia sul bordone d’organo e sulle percussioni aggiuntive gentilmente prestate da Goatman dei Goat), che in “God Is A Rover” tende verso un solare saggio di indie-psych canadese dal volume vagamente orchestrale (e dalle ambizioni non commisurate al risultato finale).

Sbavature, soggettive, di un altro disco di livello oggettivo, anche se qui e lì tentato – anche nella ricerca di nuove vie espressive – dalla standardizzazione. Per ampiezza di visuale e densità di contenuti, comunque, JuJu rimane uno dei cavalli della neo psichedelia italiana su cui puntare con maggior convinzione nei prossimi tempi.

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