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7,5/10

Echolyn

Echolyn

Difficile scrivere di un gruppo che si è così tanto amato e che ha accompagnato varie fasi di cambiamento nei gusti musicali, senza prendere una posizione fra ciò che provocò all’epoca – circa venti anni fa, ahimé – l’ascolto dei loro primi album e da ciò che si prova oggi a guardare da una prospettiva mutata. Scegliere l’adesso o il prima? Oppure optare per una via mediana? Inutile porsi questioni del genere: nel presente sono comunque stratificate le consapevolezze del passato, anche quelle dormienti o latenti. Ho fatto spesso esperienza che toccando le giuste corde queste vengono riattivate senza alcuna volontà cosciente. “echolyn” è il settimo capitolo discografico del combo originario della Pennsylvania (senza contare la collection di demo, inediti e cover “When The Sweet Turns Sour”) e segue di sette anni il precedente opus “The End Is Beautiful”, che ha avuto il grande pregio di portarli per la prima volta sui palcoscenici italiani nella seguente tournée.

Con le prime note di Island subito ci investono come un treno le classiche intersezioni di synth e chitarre, incalzate da ritmiche sussultorie aprendoci la porta di accesso al secondo self-titled album della carriera degli Echolyn (il primo era il debutto e risaliva al 1991), quasi a proporre un volto amico con lo scopo di venirci incontro e dire: bentrovatii! L'attesa per il ritorno della formazione americana non poteva essere più appagante. In Island gli innesti vocali fra il cantante Ray Weston e Brett Kull (singer, chitarrista e perno compositivo insieme al tastierista/pianista Chris Buzby), mantengono immutato il loro magnetismo: il brano è un viaggio emozionale che rammenta e ravviva i motivi per i quali tanto avevamo stimato gli Echolyn all'uscita di gemme come "Suffocating The Bloom" (1992) e "As The World" (1995), lavori nei quali la critica underground aveva ravvisato gli elementi in grado di dare nuova linfa e nuove ragioni d'esistenza al progressive (anche se in quel periodo la band preferiva prendere le distanze da quella temperie culturale).

Headright  è un brevissimo brano di pura energia che pare schizzato via da "Cowboy Poems Free" (2000): è l'unico episodio del programma ad avere le sembianze del singolo.

Locust To Bethlem, sonnecchiosamente introdotta dagli ammiccamenti di una slide guitar, innervata da un organo che scorre sottocutaneo e impreziosita da archi dal gusto Beatlesiano, è una lenta parata di sogni e visioni che, risplende delle pagine migliori degli statunitensi, anche se non ha fra le sue priorità quella di staccare i piedi da terra per spiccare il volo.

Some Memorial riesce meglio a mettere a disposizione del tempo che gli è concesso - undici minuti - le multiformi identità degli Echolyn: imponenti impasti vocali, un suono d'insieme limpido, chitarra, pianoforte e hammond a tratteggiare un disegno senza la frenesia di renderlo orpelloso, il basso di Tom Hyatt visceralmente vibrante, giochi di contrasto fra chiari e scuri, rallentamenti e accelerazioni, le ritmiche fantasiose di Paul Ramsey, sempre attinenti all'emozione trasmessa. La cifra stilistica di Kull, Buzby & soci è qui mostrata nella sua interezza, ribadendo i motivi che stanno dietro alla grandezza di un collettivo misconosciuto ai più e raccolta in una summa per neofiti: con un tripudio di energia dinamica, che non risulta per nulla frustrata dal tempo e dall'età dei suoi artefici, si arriva alla fine del primo cd. 

La seconda parte inizia secondo modalità più riflessive: Past Gravity comincia languida con il piano a condurla verso territori jazzy opportunamente osservati e descritti dalla prospettiva degli Echolyn. L'andamento della chitarra e della batteria è vagamente blues e il brano evolve fino ad un climax  al quale segue un finale in punta di piedi, davvero emotivamente teso.

When Sunday Spills sembra ricollegarsi idealmente alle delizie acustiche che costituirono l'EP "And Every Blossom", per umore e per strumentazione prescelta: qui l'impeto è appena elettrificato, per consentire lo slancio verso l'ascesa finale così vertiginosamente Yes-oriented (siamo sulla lunghezza d'onda del finale di Awaken, tanto per capirci). L'incipit di (Speaking In) Lampblack è sorretto da una soffice carezza d'archi e da una armonia delicata e toccante, a cui  - col passare dei minuti - si aggiungono soluzioni corali molto misurate: sia il piano che la voce risuonano ricchi di riverberi e anche in questo caso alle tenui trame dal sapore sixties si succedono lunghi momenti di lirica ascesi psichedelica. Ma tutto si evolve con grande senso di bilanciamento, denotando una certa vicinanza alle forme poetiche degli Wilco.

La chiusura di The Cardinal and I è sicuramente più "alterata", anche se qui è una malinconia quasi inglese a pervadere gli spazi dell'anima verso i quali l'ispirazione di questo pezzo propende, in virtù delle sue intime istanze. Finale magistrale, con l'accento spostato su ritmi aggrovigliati e su rapidi giri di chitarra.

La mistura messa a punto a inizio Anni '90 non ha smesso di emanare fascino (almeno verso chi in quel decennio se ne ha lungo abbeverato) e se pure ha perso un po' sotto l'aspetto della velocità con la quale le variegate parti delle  tracce si succedevano, non viene minimamente intaccata la credibilità di ciò che ascoltiamo in questo 2012. Anzi, è forse in questa maggiore volontà di indugiare sui panorami sonori evocati dalle composizioni attuali, senza troppa voglia di accelerare o di affrettare il passo, che risiede il metro per misurare quanto gli Echolyn siano cambiati e maturati. Il loro suono resta asciutto, essenziale, intricato, sempre pronto a improvvise impennate d'enfasi, eppure ogni transizione pare meno dettata dall'irruenza, i tempi ritmici più consonanti a quelli di fruizione delle armonie. La dicotomia offerta da due orizzonti compositivi lontani fra loro (lo spirito folk/country/blues di Brett Kull e quello jazz-rock/fusion di Chris Buzby, che ha personalmente arrangiato gli archi), riesce ancora a costruire la magia di un dialogo comune e condiviso anche se le inclinazioni oggi tendono a trovare spazi individuali più marcati.

Tutti i riferimenti citati nel corso della recensione (Gentle Giant, Yes, The Beatles, Wilco e molti altri che ancora ce ne sarebbero) non possono rendere l’idea di cosa davvero anima la musica del gruppo americano: bisogna lasciare scorrere le loro note, distanziandosi da qualsiasi preconcetto ed esponendosi alla malia delle loro canzoni.

La cura nella produzione (ad opera di Kull), attenta ad ogni singola sfumatura di suono, ha richiesto un lavoro estenuante, ma il risultato è talmente appagante da convincere ogni fan del collettivo from U.S.A. che questo potrà anche non essere in assoluto il loro miglior album (la palma d’oro non può essere sottratta ad “As The World”), ma di certo è quello nel quale riescono a comunicare nel modo più cristallino il loro mondo sonoro e le emozioni di cui questo è costituito.

echolyn”, tranne che per alcuni passaggi, non è concepito per essere funambolico e pirotecnico come molte delle epiche composizioni del passato: ciò che vuole dire se lo gioca tutto nel conseguimento dell’equilibrio, senza che nessuna delle sue parti costituenti prenda il sopravvento sulle altre a discapito dell’unità umorale dell’insieme. E io, ancora una volta, mi ritrovo a chiedermi: come ho fatto a fare a meno di loro?

E a chiunque abbia appreso di questa realtà musicale solo oggi, auguro di vero cuore di sperimentare una conoscenza personale degli Echolyn.

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bbjmm 6/10
REBBY 6/10
luca.r 6,5/10

C Commenti

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Utente non più registrato alle 9:43 del 22 settembre 2012 ha scritto:

Suffocating The Bloom e As The World erano due album magnifici che effettivamente portarono una ventata di freschezza ed originalità nel panorama progressive e in territori limitrofi.

Dice bene il recensore nel consigliare coloro che non li hanno conosciuti, di colmare la lacuna.

Utente non più registrato alle 14:27 del 24 settembre 2012 ha scritto:

...e ci voleva proprio il rientro sulle scene di una delle band che negli anni '90 ha contribuito a ridare lustro e vivacità

al progressive...

Rispetto alle eccellenti opere del passato, mi sembra che i brani contenuti in questo nuovo disco siano più immediati, forse con una maggiore enfasi del versante hard.

Le influenze sempre riscontrabili, sono maggiormente assimilate, con il risultato che la materia sonora che se ne ricava è più personale, ma con un pizzico di raffinatezza in meno.

Resta un gruppo che può tranquillamente dettare scuola, molto più di altri attualmente in circolazione che hanno minori capacità.

P.S. Spero si possa fare...segnalo il mio blog: brogpsycrog.blogspot.it

Foxtrot (ha votato 7 questo disco) alle 11:28 del 22 novembre 2013 ha scritto:

Mi ha lasciato un po' perplesso al primo ascolto, poi è cresciuto col tempo. Un altro buon disco di una vera band progressive.