Iron Butterfly
In A Gadda Da Vida
Se, nel chiedere quale sia il primo cd heavy metal, qualcuno vi rispondesse nominando questo cd, non esitate a tirargli un bel cazzotto sul naso. L’immensità di questi pezzi non può essere ridotta a figura paterna dei Deep Purple. È molto di più.
Prendete l’acid rock, mescolate con del garage rock d’annata, aggiungete psichedelia in quantità con un pizzico di musica tribale e sarete comunque lontani dalla definizione di In A Gadda Da Vida. Il nome deriva dalla frase in the garden of heaven che, storpiata, veniva così pronunciata dall’ubriaco cantante Doug Ingle sui palchi dei loro concerti (esistono varie versioni di questo aneddoto, ma variano solo i particolari, mai la sostanza).
Milioni di copie vendute – sarà il primo disco di platino nella storia del rock – evitarono il sacrificio commerciale dell’ultima canzone, la title track di 17 minuti, a cui venne dedicato l’intero lato B dell’LP, inizialmente ridotta e spogliata da qualsiasi assolo per ordine della casa discografica.
Se per qualche secondo potrà sembrare di sentire qualche nota dei Cream o dei Doors, sarà solo una distrazione temporanea, destinata a soffocarsi nelle maestose note dell’organo, nella splendida voce di Ingle, e in un crescendo di batteria (poco presente nelle prime tracce e progressivamente sempre più protagonista, fino all’assolo a metà dell’ultimo pezzo).
Sicuramente è la versione più dura dell’acid rock, e fu probabilmente questo il segno distintivo che garantì enorme fama alla band. Gli Iron Butterfly cambiano senza preavviso i ritmi, senza preoccuparsi di rompere gli schemi, mentre i riff di chitarra suonano di una cattiveria mai sentita prima; e non è un caso che gli Slayer (niente di più distante tra Angel of Death e Are you happy, non pensate che sia la stessa musica) si siano cimentati in una cover di In a gadda nella colonna sonora Less than Zero (1987).
Di disco in disco la formazione di questo storico gruppo cambierà in modo importante, segnando un progressivo declino. Perfino tra il loro esordio (Heavy, sempre del 1968) e questo album epocale ci sono solo due componenti in comune (Ingle e Ron Bushy).
Ma poco importa, perché ci sono intere discografie solo piacevoli sugli scaffali dei negozi, mentre di capolavori non si abbonda di certo. Questo invece è IL disco, capace di condensare le atmosfere dell’anno di Woodstock in un mix che prende il meglio da ogni genere, si fa anticipatore di molta della musica a venire e, allo stesso tempo, resta inimitabile.
Il gruppo si fa valere anche sul palco, davanti al loro numeroso pubblico, tanto che l’altro cd assolutamente immancabile è appunto Live (1969), che racchiude i migliori brani dei primi tre album studio.
Anche se dal 1970 hanno avuto poco da dire (di nuovo) resta questa pietra miliare, questo tassello fondante del rock tutto (e dei suoi derivati).
Soprattutto i metallari, per stavolta, farebbero bene a mettere da parte i loro dragoni e le borchie, accendersi il bastoncino d’incenso e lasciarsi trascinare da uno dei padri del rock moderno.
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