Iron Maiden
The Number of The Beast
Una maglia degli Slayer addosso a un bimbo di prima media induce preoccupazione ma è da anni che gli Iron Maiden campeggiano con Eddie su vestiti e zaini di ragazzi di ogni età.
La NWOBHM ha regalato molte opere uniche (due, tre dischi e i gruppi sparivano) e la compilation Metal For Muthas (1980), capace di imporsi ad argine del movimento punk, per poi vedere i suoi frutti appassire all’ombra del continente americano. Una sola mela sopravvisse al giudizio universale, raggiungendo l’olimpo (anche i Saxon riusciranno a restare a galla ma in proporzione non ci sono paragoni). Odiati da qualcuno e adorati da intere schiere di fan gli Iron Maiden si impongono come punto di riferimento assoluto, concentrando in The Number Of The Beast la svolta verso un heavy metal ripulito da suoni più hard rock (che finirà per perdersi, alla lunga, in un artificioso gioco da opera barocca). È il primo disco di Bruce Dickinson, con la cui voce si dovranno confrontare molti fan della prima ora. Davanti al palco di Mestre, con ore insonni e un marciapiede come materasso, assisto incredulo a due ragazzi (di tenera età) che quasi si uccidono discutendo di chi valga di più tra Bruce e Paul Di Anno. Polemica sterile ed inutile. La prima voce degli Iron Maiden è autrice dei due dischi d’esordio (escludendo demo e registrazioni varie) e si avvicina male allo sterminato lavoro del periodo successivo. Che una voce possa piacere più di un’altra è legittimo, ma pensare a tutta la produzione post-Di Anno con un’impostazione vocale diversa sarebbe impossibile.
Il numero della bestia è una delle prove migliori di Steve Harris (fondatore del gruppo e autore di quasi tutte le canzoni del disco). Col suo basso salirà sulla pedana del direttore d’orchestra e dirigerà, senza mostrare fatica o forzature, sessioni ritmiche che ad oggi restano senza grandi paragoni.
È un disco certamente unico, anche se ritenerlo completo rischia di passare per esagerazione. Al di là della cieca adorazione che spesso circonda almeno metà delle tracce, esistono dei punti bassi (come spesso capita se si prendono in considerazione opere complessive degli Iron).
Il pezzo di apertura (Invaders) è una cavalcata che arriva come una fiammata, pronta a lasciare dietro di sé ogni polemica (è una svolta musicale, non c’è da perdersi in chiacchere).
Introdotti in Inghilterra con l’invasione vichinga tocca alle presentazioni e Bruce ipnotizza il metallaro di turno con un lento alternarsi di aggressività e armonia. Children Of The Damned è storia, un manuale dell’heavy metal, che percorre uno schema che diventerà più che abusato (da parte degli Iron Maiden stessi), ma mai eguagliato nell’esecuzione. Al solito le citazioni abbondano; sono pochi i gruppi musicali che ti permettono di sostenere metà del programma di letteratura inglese (alle superiori) citando continuamente loro canzoni. Qui è il caso di un film tratto da un libro di Wyndham (per le fonti esatte basta passare da Wikipedia).
Le facili melodie di The Prisoner (omaggio a una serie TV inglese) sono eccessivamente facili, per quanto coinvolgenti, e si passa senza grossi rimpianti a 22 Acacia Avenue, che prosegue la saga della prostituta Charlotte (iniziata in Iron Maiden del 1980 con Charlotte in the Harlot). In primo piano il lavoro ritmico delle chitarre e della voce, che accompagna in un clima suggestivo e quasi nostalgico. Per aprire la canzone che dà il titolo all’album (il recitato iniziale è una diretta citazione biblica) Vincent Price chiese la modica cifra di 25.000 sterline, portando Harris ad accontentarsi di un imitatore. Il testo e la struttura sono una sorta di attrazione fatale. Non vale la pena soffermarsi a discutere, basterebbe ritrovarsi circondati da una folla oceanica per farsi entrare dentro il ritornello del 666. Da qualcuno ritenuto pezzo fancazzista è invece puro Iron Maiden. Niente di complicato o mistico, semplice e diretta, nel testo come nella musica. Sono gli ingredienti che li rendono tra i più amati gruppi del pianeta.
Il vero apice di Bruce arriva comunque in Run To The Hills, primo singolo estratto, cui molto è dovuto, quanto meno a livello commerciale. Le vicende indiane sono argomento di Harris che si piazza in prima linea a stuzzicare le sue corde. È una di quelle canzoni (come Master of Puppets) che reclama di uscire dalla sala di registrazione, o almeno lasciarsi cantare a squarciagola.
Gangland e Total Eclipse restano oscurate quasi del tutto dagli altri pezzi, forse troppo, ma è difficile apprezzarne la scarsa originalità. Che sia una strategia per calmare l’ascoltatore prima della chiusura? Hallowed be Thy Name è ritenuto da molti la miglior canzone degli Iron. Atmosfere uniche e songwriting da brividi. Le campane più famose (dopo o insieme a quelle di AC/DC e Metallica). Secondo Malebranche non esistono parole per descrivere la perfezione, perché ciò che supera il limitato linguaggio non merita di essere intrappolato. Se delle precedenti 8 tracce si può discutere qui ci si può solo lasciar trascinare. È il Padre Nostro del metal d’inizio anni ’80.
La produzione contribuì in modo sostanziale a dare corposità al suono e il primo posto in classifica inglese decreterà l’inizio della leggenda.
Amarli non è cosa semplice, perché restano un gruppo inconfondibile e dal successo talvolta eccessivo. Così come parlare di capolavoro significherebbe ignorare Gangland, Total Eclipse, oltre a sopravalutare Invaders e The Prisoner.
Più epico e barocco dei precedenti inizia il processo di distruzione che trascinerà il gruppo a registrare dischi imbarazzanti (anche prima del 2000). L’inizio del declino? L’apice del gruppo? Semplicemente un nodo da cui è impossibile non passare.
(Nota: Total Eclipse in realtà non era compresa tra le tracce del disco originale. Il passaggio da B-side alla tracklist è del 1998, quando viene ristampata buona parte del catalogo maideniana in versione rimasterizzata)
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