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R Recensione

7,5/10

Lay Llamas

Thuban

Tipino bizzarro, Philip K. Dick. L’ontogenesi di Valis, primo capitolo dell’omonima trilogia, è segnata ex abrupto da un’inspiegabile apparizione: il fulmineo materializzarsi di vortici di luce in rotazione apparentemente armonica col turbinare dei pensieri sconnessi dello stesso Dick. Una sinestetica comunione percettiva che, per dirla con Massimo Padalino, susciterà nello scrittore “Dolore. Stupore. Smarrimento” (Space is the place. Storie di spazio, storie di spazi, Bologna, Meridiano Zero, 2016, p. 206) e lo indurrà a ripensare radicalmente il reticolo di relazioni spaziotemporali col quale interagiva nella propria doppia realtà, letteraria e fenomenica. Sarebbe semplice e semplicistico leggere nella fotofania dickiana l’“illuminazione” rivelatrice che offusca le retine e purifica l’anima di un Saulo di Tarso della fantascienza psych: anche perché ogni luce, per quanto accecante sia, presuppone un’ombra altrettanto pervasiva, perforante. Così, perla della costellazione del Dragone, rifulse incontrastata anche la magnitudo di Thuban (adattamento dell’arabo thuʿbān, indicativamente “serpente”, e qui il resto dei collegamenti con il mondo dell’Italian Occult Psychedelia lo farà il lettore più accorto…), almeno finché l’avanzare nel tempo astronomico non si tramutò in avanzare nello spazio: la stella polare di un tempo venne detronizzata, cannibalizzata dall’eterno ciclo di successione che regola l’esistenza universale in senso lato.

Da e verso concrezioni stellari, incessante ed imprevedibile, si muove il primo respiro della seconda fase di Lay Llamas, divenuto – nei quattro anni che ci separano dal fortunato esordio “Østrø” – un progetto governato dal solo mastermind tuttofare Nicola Giunta, qui tuttavia accompagnato nelle registrazioni da una superband che riunisce e sintetizza alcune delle esperienze artistiche più rappresentative dei suoni “altri” del Triveneto (The Beautiful Bunker, Orange Car Crash, Mamuthones, D.O.V.E. e chi più ne ha più ne metta). Ipnosi e ricorsività, astrattismo e pragmatismo: “Eye-Chest People’s Dance Ritual” è una raffinata nenia space pop bass-oriented dove la voce filtrata di Nicola Sanguin – in pose plastiche à la Sylvian altezza Japan – viene risucchiata da un reflusso ritmico modulato a mo’ di danza folkloristica, qualcosa che fonde i calanti trocaismi dell’Est mediorientale con la percussività dell’Africa nera (djembe, bonghi, maracas e kalimba compaiono nella strumentazione aggiunta). Una trazione nuova e diversa, dunque, una ricerca sistematica della rotondità per accostamento che, nella successiva “Holy Worms”, fa spalleggiare da maliziose chitarrine funk un poderoso groove afrobeat (suonato, tuttavia, con la sottile complessità di un tocco marcatamente jazz, che inciampa e introduce microvariazioni a piè sospinto). “Silver Sun”, infine, chiude la triangolazione aumentando vertiginosamente il contagiri, con un kraut dall’impatto post punk – i Can riletti dagli White Hills, in pratica – screziato qui e lì dalle screpolature sanguigne del sax di Sergio Pomante (Captain Mantell, Caterina Palazzi Sudoku Killer).

Difficile dire, in “Thuban”, se e dove la tensione degli opposti – settentrione e meridione, flash e tenebra, canzone ed esplorazione – raggiunga una sua definitiva risoluzione. Il gusto personale di chi scrive, nonché la convinzione di percepire una certa ascensione climatica predisposta ad hoc, la individuerebbe in “Chronicles From The Fourth Planet”, un dub sciamanico che si regge su un abbacinante arpeggio westernato di potenza smisurata (come Dylan Carlson chitarra aggiunta degli OM di “Advaitic Songs”: è subito tempesta di luce, ed è una luce totalizzante, alienante). Ma l’ascoltatore è libero di leggere le composizioni di “Thuban” in molti modi: per blocchi tematici (si seguano le liriche), per accostamenti sonori, persino tracciando una mappa ideale dei numerosi ospiti esterni coinvolti nel processo creativo. Si va dall’inconfondibile voce femminile di Goatshee dei Goat nel salomonico acid folk di “Altair” (l’episodio più classico ed inquadrabile dell’intero disco) allo zampino dei Clinic nel mesmerizzante rotolare motorik di “Cults And Rites From The Black Cliff” (ottima la coda acustica, con lo sfumare del sax morphinico di Enrico Di Stefano), sino al fluviale spoken word di Mark Stewart del Pop Group che prepara il decollo della trance cosmica di “Fight Fire With Fire” (con inserimento, a tre quarti, di una serpentina arabeggiante di synth) e al trasognato borbottio di Luca Giovanardi dei Julie’s Haircut nel gran rituale di “Coffins On The Tree, A Black Braid On Our Way To Home” (per certi versi, un estatico rovesciamento di “Eye-Chest People’s Dance Ritual”).

Il risultato complessivo non cambia: “Thuban” si propone come la più autorevole enciclopedia del sapere neopsichedelico italiano dell’ultimo quindicennio, secondo solo alla Squadra Omega di “Altri Occhi Ci Guardano” (la cui prospettiva, pure, era radicalmente differente). Un gioco di yin e yang che va oltre dell’ascolto del disco in questione: nell’orbita esperienziale è obbligatorio integrare il 7” condiviso con Alfio Antico, “Malophòros / Mondi Di Pietra” (Backwards) dove torna a bussare la Selinunte sommersa.

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