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R Recensione

7/10

High Llamas

Can Cladders

Gli High Llamas meritano rispetto. Il rispetto che si deve ai pionieri, seppure in questo caso si tratti di pionieri del modernariato musicale. Fautori, fin dal lontano 1992, in tempi meno che sospetti, della riscoperta del pop a cinque stelle di Brian Wilson, appassionati delle colonne sonore italiane di Morricone e Umiliani, eredi illuminati del pop barocco di Burt Bucharach.

Degli alieni, negli anni del Grunge, dei visionari del retrò, in prospettiva. Perché quei suoni, sdoganati così coraggiosamente e anzitempo, sarebbero stati di lì a poco oggetto di culto diffuso e trasversale da parte del mondo indie e non, tra compilation retrospettive, uscite della Easy tempo e blasonati duetti Bucharach-Costello. Faccenda parzialmente modaiola, quindi, destinata a prosciugarsi sotto il peso dell’ entusiasmo e dello zelo degli ingordi appassionati musicali nei primi anni del nuovo millennio.

Eppure, loro, i lama, continuano a volare alto, placidi e indifferenti all’inesorabile scorrere del tempo, fluttuano nelle loro bollicine di sapone fluorescenti, inesorabilmente ed instancabilmente pop. Il nome di Brian Wilson e le sue armonie scolpite indelebili nel cuore, l’easy listening e lo stile Bucharachiano a rivestire di velluto sonoro il tutto e ovviamente il solito amore per le soundtrack.

Il rischio di stancare incombe, e non per trendismo, ma perché semplicemente sette dischi sono fin troppi per ribadire il proprio canovaccio musicale, per quanto personalissimo, se tale canovaccio rimane pressoché immutato: e di questo il gruppo sembra consapevole, introducendo disco dopo disco minuscole novità nel proprio suono.

Se l’ultimo Bett, Maize & Corn aveva portato all’estremo la sontuosità sonora del gruppo, questo Can Cladders sembra concedere un’ulteriore, seppur piccolo scarto stilistico: la natura pop del gruppo pare farsi un po’ meno asettica, scostarsi sempre più dalla nozione di parenti dolci degli Stereolab e virare in direzione contraria.

Il risultato è un suono più organico, più direttamente melodico e meno astratto, con qualche concessione di più alla semplicità e qualche vezzo anni’70, i coretti si fanno più ruffiani e accattivanti e invece dei Llamas a sprazzi pare quasi di ascoltare gli indimenticati Free Design: si ascoltino Winter’s Day, Honeytrop, lo stacchetto Something About Paper, Clarino Union Hall, Clove Cutter, Rollin: tutti pezzi che ci mostrano un gruppo in graduale, ma costante mutazione.

L’effetto finale, se non può essere definito rivoluzionario, è comunque rinfrescante: senza stravolgere il proprio (enorme) bagaglio compositivo, il gruppo trova la sua via per il rinnovamento: invisibile, silenziosa, microscopica se volete. Ma è giusto che sia così, per un gruppo che della cura maniacale del dettaglio ha sempre fatto il proprio principale punto di forza.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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