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R Recensione

8,5/10

Paul McCartney

McCartney III

Spesso quando si recensiscono album di autori che sono pietre miliari della nostra storia, soprattutto se a farlo è chi non ha potuto vivere quegli anni, c’è una sensazione di imbarazzo che in alcuni casi porta a rinunciare. Se poi stiamo parlando di uno degli architetti della musica contemporanea, ovvero Paul McCartney, in un anno per giunta in cui le voci di Dylan e di Neil Young (chi un modo chi in un altro) o di gruppi come gli Half Japanese sono tornate alla ribalta, l’imbarazzo cresce ancora di più. Eppure di fronte a questo McCartney III (il secondo, seguendo la linea, risale a poco dopo l’assassinio di Lennon, nel 1980, e dopo lo scioglimento di McCartney dai Wings) ogni compromesso viene meno. Registrato nella solitudine della pandemia, proprio come McCartney II fu registrato esattamente quarant’anni fa nella solitudine della fattoria scozzese di Paul, è uno dei regali piu memorabili dell’anno nero e pestilente di questo decennio. Di quello che dicono sui grandi rotocalchi musicali non ce ne frega assolutamente niente. Si sono lette le opinioni piu fastidiose, tutte accomunate dall’idea che questo McCartney III non sia all’altezza del suo precedente del 1980, che sia stato nient’altro che un divertissement solitario che non lascia il segno, lacunoso, da pub (ho letteralmente letto, riguardo al commento di uno dei brani, “un pezzo da suonare al pub a meta serata”), e soprattutto basato sull’inconscia idea che Paul sia un ottantenne che ha già ampiamente dato quello che ha dovuto dare alla musica, cioè tutto. Ecco un esempio di come la critica non solo può rovinare un ascolto, ma può anche essere un mestiere assai poco gratificante.

C’è chi pensa invece che questo McCartney III, con quella sua faccia di dado stampata sulla copertina, strumento del libero gioco per eccellenza, della libera creatività se vogliamo, sia un album perfettamente riuscito e una pura gioia per le orecchie, cosa che basta a scacciare via il volo di qualche fastidioso imenottero della rete. Mi dispiacerà quindi parlare un po’ per litoti, ma così si deve. Long tailed winter bird, certo tessuto con una voce chiaramente Beatle come quella di Paul che ripete ipnoticamente “Do you, do you miss me? Do you, do you feel me?”, non è un banale gioco di chitarra, spesso suonata a vuoto o con arpeggi che oscillano e tremano in bemolli con un sapore vagamente arabeggiante, ma la dimostrazione che con pochi ingredienti si può costruire, se si ha genio, un brano di cinque minuti in grado di non annoiare nemmeno un attimo.

Tre sono, almeno, le linee prevalenti in quest’ultimo lavoro di McCartney. La prima è quella di brani come Long tailed winter bird e la riuscitissima ballata rock Lavatory lil, che ha una storia anche interessante dal punto di vista del contenuto, in quanto si tratta di una parodia scritta da parte di Paul “contro” un collaboratore fastidioso (un “baddie”, dice) - la chitarra usata da Paul qui è una Telecaster del 1954 che il musicista ha suonato molto raramente prima di questo lavoro. A questa aggiungiamo Slidin, il brano piu rock dell’album, il cui riff venne in mente a McCartney durante il soundcheck di una jam tenuta in Germania nel 2016.

Altra linea è quella piu chiaramente folk seguita da brani come Pretty boys e The kiss of Venus. Il primo vede come protagonista un’acustica che racconta delle scampagnate di Paul, in giro in bicicletta per New York e Londra, mentre i “bei ragazzi” fanno riferimento ad alcuni “oggetti del desiderio”, modelli maschili ritratti in fotografie scattate ossessivamente alle star da parte dei paparazzi (non è un caso che Paul finisca dicendo “Puoi guardare, ma è meglio che non tocchi”), un mix abbastanza inusuale da ascoltare. The kiss of Venus, il brano folk più orecchiabile (rimane in testa per giorni) e spensierato di III, si riferisce, prima che a un simbolico bacio di Venere, al movimento dei pianeti, qui ritratti in una sorta di pentagramma astronomico, una musica delle sfere. Glabro dal punto di vista strumentale, il brano ha tuttavia una particolarità, cioè l’uso del clavicembalo, graditissimo apax dell’album.

Spartiacque è la più complessa (almeno da ascoltare) Deep deep feeling, da alcuni criticata come “riempitivo” (di ben otto minuti). È la terza linea. Si tratta di un brano oscuro, che con una voce sorprendentemente profonda e risvegliata scava alcuni fondi dell’inconscio. Non solo: è anche la traccia più sperimentale dal punto di vista sonoro, perché fa utilizzo non solo di strumenti elettronici ma anche di parti orchestrali piuttosto spiritiche, che mettono in scena, probabilmente, l’ambivalenza del sentimento d’amore, misto di estasi e dolore (di fatto una traduzione del tema di un piacere portato talmente all’eccesso da risultare penoso). Il brano, proprio per la sua lunghezza e la sua sovrapposizione di temi, ha richiesto un lungo lavoro di montaggio. Simile nei toni è Women and wives, dove la voce matura e baritonale di Paul fa da ulteriore piano melodico al piano, costruendosi quindi su un piano completamente diverso da quello dei brani piu rock e folk dell’album. Il vissuto testo (“Many choices to make / Many chains to unravel / Every path that we take / Makes it harder to travel”) è stato in parte descritto da Paul come un messaggio alle younger generations.

Nota per il brano Seize the day, molto riuscito dal punto di vista dell’intuizione melodica, un po’ alla Lou Reed: la più filosofica forse tra le canzone di III e la più vicina quindi al momento storico della sua scrittura, cioè la pandemia da Covid-19 che ha scosso il pianeta (“when the cold days come we wish that we had seized the day”). Ma quando si pensa che Paul non possa stupire più di così veniamo gettati in Deep down, brano molto ritmato, martellante, in cui la voce segna una qualche vaga influenza hip-hop. Sorta di dono finale Winter bird / When winter comes, che riprende, ad anello, il brano iniziale per poi lasciarci con tradizionalissime note folk.

Non solo l’esempio dell’immaginazione di un musicista inesauribile, ma la dimostrazione che il passaggio del tempo non è sinonimo di invecchiamento e che non bisogna né per forza scendere a compromessi con il proprio tempo né dover riproporre costantemente il dogma della propria carriera musicale per comporre ciò che bisogna, semplicemente e obbligatoriamente, ascoltare.

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hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 11:18 del 18 gennaio 2021 ha scritto:

In completo accordo con le riflessioni di Alessandro. Non un semplice divertissement, ma un disco che ha un suo senso - molto solido e ricco di estro. Anche la funzione pedagogica di alcuni brani, se così la vogliamo definire (penso a "Pretty Boys" o "Women and Wives"), si pone in posizione di osservazione o al massimo di timida guida, e (almeno a me) non disturba. Peraltro, insieme all'opener, rappresentano i pezzi più pregiati a mio avviso.

Molto bravo Alessandro a dare il giusto valore al disco.