R Recensione

9/10

Red Red Meat

Bunny Gets Paid - Deluxe Edition 2009

Nel 1995 si stava decisamente meglio. L’aria era irrespirabile, i popoli erano governati da farabutti senza coscienza, la felicità si conquistava raramente e a caro prezzo e il senso di tutto questo sfuggiva all’umana comprensione. Esattamente come oggi.

Nel 1995, però, c’era la speranza. C’era vento di novità: la sinistra italiana si ricompattava sotto il simbolo dell’ulivo mentre la destra assisteva alla nascita di una nuova alleanza nazionale, l’Unione Europea reclutava nuovi membri, lo Stato di New York ripristinava la pena di morte, migliaia di persone morivano in Giappone a causa dei terremoti, altrettante morivano in Jugoslavia a causa della guerra, e un italiano faceva lo stesso a causa di un coglione che diceva di far parte degli “ultras”.

In musica, le cose non andavano diversamente: ancora sotto shock a causa della perdita di Kurt Cobain avvenuta l’anno precedente, il mondo del rock si trovava a fare i conti con nuove tragedie come l’abbandono dei Take That da parte di Robbie Williams e l’espatrio di Mauro Repetto che riduceva per sempre gli 883 a semplice one-man-band. Quando si dice la fuga dei cervelli.

In questo panorama arido e sconfortante, la vita di ogni giorno procedeva grazie a piccole gratificazioni: il successo degli Oasis, le ultime schegge grunge (Smashing Pumpkins), la nascita di nuove formazioni interessanti (Mogwai, Air, Chemical Brothers).

Al campetto di calcio del mio paese però, tra un tiro al pallone e un tiro di sigaretta (gesti che spesso venivano eseguiti contemporaneamente) le giornate erano scandite dalla stessa colonna sonora dell’anno precedente, e di quello prima ancora: Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e Soundgarden. Il tempo si era fermato, come se nessuno volesse accettare la fine di un’era. L’unico che si distingueva era Franchino. Franchino (detto anche “il Ducato” a causa delle sue notevoli dimensioni) non giocava a calcio, non fumava, portava i capelli corti stile militare di leva e mostrava con audacia la sua camicia di jeans rimarcandone la superiorità rispetto alle nostre di flanella, che lui chiamava “da boscaiolo”. Franchino caracollava tutto il giorno attorno alla sua Uno Turbo, apportando quotidiane modifiche e migliorie invisibili ed impercettibili agli occhi e ai sensi dei non iniziati.

Fu durante un pomeriggio primaverile del 1995 che udii chiaramente Franchino intonare uno strano lamento. Generalmente, tra una spolverata al cruscotto e una raddrizzata all’antenna, lo sentivi canticchiare “Colpa d’Alfredo” o “Vado al massimo” di Vasco Rossi. Quel giorno, invece, Franchino biascicava una cosa tipo “Ceeee Ceeee Ceeeeee”. Lo ripeteva ossessivamente, strascicando la “e” e schioccando energicamente la “c”.

Verso sera mi avvicinai a lui e gli domandai: “Ma cos’è che stai cantando da stamattina?”. Lui mi rispose: “Chi, io?”. Effettivamente il verbo “cantare” era fuori luogo, ma replicai: “E chi, lo specchietto retrovisore?”. Franchino sgranò gli occhi, poi si girò di scatto verso la sua Uno Turbo quasi gridando: “Lo specchietto, cos’ha lo specchietto?”. In quel momento notai che dal faraonico impianto stereo di Franchino spuntava una cassetta, la cui custodia (probabilmente) giaceva aperta sul sedile del passeggero. Approfittando della distrazione del padrone di casa (completamente assorto nella disamina di eventuali danni subiti dallo specchietto retrovisore) mi impossessai della cassetta. Stavo per raggiungere anche la custodia quando sentii Franchino dire: “Prenditela se vuoi, poi però ridammela, che mi piace”.

Mi allontanai cercando di giustificare a me stesso la pessima figura appena rimediata con la possibilità che non fossi io il primo a tentare il furto di quella cassetta (la leggenda narra che Franchino avesse l’abitudine di effettuare visite non autorizzate negli abitacoli delle automobili ferme nel parcheggio dell’ IperCoop). Intanto la cassetta era già scivolata nel mio walkman e avevo notato il marchio Sub Pop stampato sul retro. Il fatto che Franchino apprezzasse musica edita dalla Sub Pop non faceva che aumentare la mia curiosità. Prima di premere il tasto play mi voltai verso di lui e gli gridai: “Oh, ma che musica fanno ?”. La risposta fu: “E che ne so? Roba strana, musica scazzo”.

Forse aveva espresso il concetto con eccessiva sintesi, ma le note di chitarra strappate da Tim Rutili per accompagnare la sua voce stanca e monocorde mi fecero apprezzare la definizione di Franchino. “Carpet of Horses” dura quasi sei minuti. Minuti di attesa. Si aspetta qualcosa che non succede: c’è solo quella voce (come di uno che si è appena svegliato dopo una nottataccia) e quattro accordi blues suonati col piglio di chi vorrebbe fare tutt’altro. Tanto verso la fine della canzone si sente distintamente un colpo di tosse. Nella successiva “Chain chain chain” succede qualcosa: innanzitutto realizzi cosa stava “cantando” Franchino, in secondo luogo entra la batteria di Tim Hurley. L’indole è pressoché la stessa, svogliata e dimessa, come se gli Alice in Chains avessero trovato una via di mezzo tra le sfuriate rock degli esordi e le successive derive unplugged. Il risultato, tra chitarre dal suono grezzo e un motivo talmente semplice e reiterato che anche il tuo amico idiota aveva imparato rapidamente, è uno “scazzato” capolavoro rock.

Bunny Gets Paid” è il terzo album dei Red Red Meat. Guidati, come per i precedenti, da Tim Rutili e Ben Massarella, avevano perso la bassista Glynis Johnson (fidanzata di Rutili, morta di AIDS durante un tour della band di spalla agli Smashing Pumpkins) ma avevano trovato nuova linfa nell’apporto di Brian Deck alla batteria (ma anche al piano e dietro il mixer). Il cambio stilistico apportato dalla nuova formazione è netto: rimane ancora qualche asperità acida tipica del precedente “Jimmy Wine Majestic” (1992) (la tormentata “Rosewood, Wax, Voltz + Glitter”, ad esempio) ma la transizione verso qualcosa di diverso è compiuta. In questo senso, le chitarre acustiche di “Buttered” non possono non ricordare certo isolazionismo introspettivo tipico dell’epopea grunge appena conclusa; come non si può non notare il ripescaggio di certi accordi blues che verranno ampiamente utilizzati da gente come i Royal Trux (“Taxydermy blues in riverse”); o, ancora, l’utilizzo di melodie decadenti e la costruzione di atmosfere sconfitte e rassegnate per imbastire piccole gemme rock come “Gauze”: probabilmente l’attimo di tristezza più potente e rivoluzionario che sia mai stato scritto.

Il blues-rock aggiornato con la lezione grunge, dunque. Ma non solo. Perché è vero che c’è molto blues (“Idiot Son”, altro pezzo da tramandare nei secoli, felicemente indeciso tra l’indie-rock obliquo dei Pavement e il riverbero depotenziato dei Rolling Stones), e c’è anche molto grunge (in “Oxtail” gli Alice in Chains sono davvero vicini). Ma è vero anche che queste due influenze hanno le braccia protese verso il decennio che arriverà, fatto di improvvisazioni art-rock (“Variations on Nadia’s Theme” anticipa i Sonic Youth di “A thousand lives”) ed implosioni post-rock (“Sad Cadillac” crea una tensione immobile e sferzata da bordate elettriche, talmente pesante e distruttiva nel suo giocare tra pieni e vuoti che non avrebbe sfigurato tra i solchi di “Spiderland” degli Slint).

Il rock americano nel 1995 era soprattutto questo, alla ricerca di una nuova identità tra la matrice blues-rock del filone grunge e le nuove derive, svincolate e trasversali, del post-rock.

Non a caso, dopo lo scioglimento dei Red Red Meat (avvenuto nel 1997) Brian Deck diventerà noto per il suo lavoro di produttore per bands come Tortoise e Sea & Cake, mentre Tim Rutili, Ben Massarella ed il bassista Tim Hurley si rifaranno vivi con il nome Califone.

A distanza di quattordici anni dalla sua prima pubblicazione, la Sub Pop ristampa “Bunny Gets Paid” in versione deluxe e con il consueto bonus cd contenente, tra le altre, una versione demo di “Chain Chain Chain”, il singolo di “Idiot Son”, una cover di un pezzo tratto dall’esordio dei Low (“Words”, una chicca per gli amanti della band di Alan Sparhawk e Mimi Parker) e l’inedita “Saint Anthony’s Jawbone”.

Operazione giusta e doverosa. Che anche se adesso ci riempiamo tutti la bocca di belle parole, all’epoca l’importanza storica e la chiave di lettura corretta di un disco come “Bunny Gets Paid” l’aveva capita solo un mio amico un po’ scemo, al quale ancora devo una cassetta.

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 3 voti.
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Slisko 8/10
gull 8/10

C Commenti

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ozzy(d) (ha votato 6 questo disco) alle 17:18 del 6 aprile 2009 ha scritto:

questo era gia' palloso all'epoca, non so pensare come sia la deluxe edition eh eh eh eh

fabfabfab, autore, alle 21:43 del 7 aprile 2009 ha scritto:

RE:

Ma va........

Slisko (ha votato 8 questo disco) alle 18:35 del 15 aprile 2009 ha scritto:

rieccoli

in un momento a mio parere di sconfortante mediocrità nel panorama indie e rock in generale (pari forse allo squallore del brit-pop di fine'90 con i citati pomposi oasis... meglio l'omonimo succo di frutta) l'unica cosa è la riscoperta delle piccole perle del passato decennio, e questo disco è tra quelle ... (bella la recensione con nota autobiografica)

gull (ha votato 8 questo disco) alle 19:19 del 27 febbraio 2010 ha scritto:

Quattro stelle al disco (voto 8,5), e cinque stelle alla bellissima recensione!

"Sad Cadillac", la mia preferita.