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R Recensione

7/10

White Hills

H-P1

Gentili lettori, in pochi passaggi, ecce vobis la copertina perfetta. Un paesaggio che è, nel contempo, fedele trasposizione cromatica del suono in sé stesso, territorio simbolo di uno stato mentale e fisico, approccio non poi così post-moderno alla melodia perforata, spersonalizzata e androidizzata. Due sole tinte, il bianco accecante delle esplosioni rumorose ed il nero sporcato delle immersioni galattiche. La sfiancante manovra di allunaggio degli White Hills alla musica moderna, dato per scontato da parte di molti, deve in realtà ancora avvenire, sospesa nelle tenebre liquide di un’entropia sonora che fa dell’astrattezza, della distanza, dell’imperscrutabilità la cifra vincente (sempre una sorpresa, in tal senso, l’uscita per un’etichetta molto “fisica” e calda come la Thrill Jockey, incubatrice tra gli altri dei Pontiak). Quarta uscita in studio, ad appena un anno di distanza dal terzo capitolo omonimo, “H-P1” è, a dispetto dei sensazionalismi, il perfetto manifesto di un disco che sconfessa clamorosamente tutti coloro che avevano parlato di culla neo-heavy-psych per New York, bollando al contempo il duo della Grande Mela (ora con Lee Hinshaw alla batteria) come aquiliferi di uno stile nuovo ed innovatore.

Per sgrossare la consistente polpa di un full length estremamente lungo – oltre settanta minuti! –, complesso ed elaborato, è necessario tener presente (con il piglio del critichino snob da sempre odiato, ma ahinoi efficace in casi terminali come questi) da dove i ragazzi sono partiti, in che maniera è avvenuta la transizione tra weird-players d’antan e guru investiti d’aura sacrale da Julian Cope, dove li sta conducendo la fascinazione per il sintetico-analogico. Nello specifico, indispensabile interrogarsi su quanta profondità space sia penetrata dentro all’ossessivo guazzabuglio minimal-kraut di nuova generazione o – il che è lo stesso – come la chincaglieria elettronica ed il gusto dell’iterazione abbiano sconquassato l’originario impianto psichedelico dei Nostri. Fare nomi, per quanto ci riguarda, è sparare sulla croce rossa, talmente banali possono essere i responsi. Eppure, nonostante tutti i passi in avanti fatti nel corso del tempo, i cardini degli White Hills rimangono, rigorosamente, gli stessi. Viene persino da sorridere quando si viene catturati nel gorgo infernale della title-track, diciassette minuti inchiodati ad un cavernicolo riff “a gancio” in oscillazione post-metallica e smisurata logorrea per assoli in wah-wah: niente di più che una riedizione della storica “Brainstorm” hawkwindiana. E “Monument”, che ronza acuta e sforacchiata da un maelstrom di percussioni, non sembrano forse gli Oneida suonati dai Fuck Buttons? Scoprire che dietro vi è la mente di Kid Millions, peraltro già reclutato l'anno passato, è la classica sorpresa-non sorpresa.

Pregi e difetti si accavallano e si rincorrono, frenetici, per tutto “H-P1”. “Upon Arrival” è il solo momento in cui la band newyorchese accantona l’atmosfera per privilegiare la scelta dell’impatto, con un incendiario hard rock sostenuto da un bordone di tastiera e raddoppiato da una grande sezione ritmica. Eppure, affermare che gli White Hills diano il meglio di loro quando si agganciano al loro passato – non al passato tout court – è un’inesattezza ed un’imprecisione, se consideriamo la splendida agonia motorik di “Paradise” (un estatico ruzzolare di bassi in imperturbabili, pantagrueliche progressioni minimalistiche), la stessa “Monument” – che rimane, a scanso di equivoci, uno dei momenti più felici dell’intero album – o la lenta decostruzione psichedelica di “No Other Way”, che si ispessisce quasi inconsciamente con il passare dei minuti. Un grave errore sarebbe, anche, illudersi di poter fare affidamento sulla sola anima ritmico/ambientale del duo: la concentrazione, e la difficile architettura complessiva, crollano proprio in concomitanza dei rilasci di tensione (l’eterea “A Need To Know”, gli oscuri droni di “Hand In Hand”: ancora opposizioni cromatiche!).

Fuori dalla retorica e dai discorsi personalistici, gruppi del genere si prendono o si rifiutano in blocco. Le colline hanno gli occhi.

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