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R Recensione

7,5/10

Kayo Dot

Coffins On Io

Destino vuole non che io abbia ad innamorarmi perdutamente di ogni brano dei Kayo Dot di Toby Driver (sia mai), ma proprio di quelli che prendono piede nella maniera più sciagurata, insensata, discutibile possibile. Come premiere di “Coffins On Io”, settima prova in studio ad appena un anno dal mozzafiato “Hubardo” e primo disco ad uscire per i tipi della piccola label The Flenser, è stato scelto come singolo promozionale (…vabbè) “Library Subterranean”. Che inizia per l’appunto così: nella maniera più sciagurata, insensata, discutibile possibile, un’accozzaglia di tastierone synth wave ad ammonticchiare una povera scenografia per gli acidi riverberi di (inutilmente) vistosa strumentazione Sisters Of Mercy terribilmente fuori tempo massimo. Da ringraziare, perlomeno, c’è il fatto che l’effettiva qualità della registrazione su nastro non sia la stessa del pezzo messo originariamente a disposizione su Soundcloud, orribilmente compresso ed arcuato sulle alte frequenze. Per poco più di due minuti e mezzo, Driver segue una melodia tutto sommato ruffiana, diluita negli interstizi da chitarre spianate: poi, è come se un mondo finisse nell’apocalisse, come se mai ci fosse stato posto per l’etereo ed il fuggevole. Le sei corde cominciano a deformarsi, i synth fischiano su schizofrenici girotondi, la sezione ritmica si increspa a singulti. Sembrano i Japan che si mettano a suonare math-core, i King Crimson di Fripp e Belew alla ricerca esasperata del controtempo, una sarabanda di acrobatiche sezioni dispari sulle quali – a guisa di taglierino di Fontana – entra a martello un sax à la Sonny Rollins. Di distonia in distonia, il marasma cresce, lievita: improvvisamente, infine, tace, si ferma. Come il risveglio subitaneo da un incubo.

La recente frequentazione nei Vaura? Ha, comprensibilmente, il suo peso. Una schizofrenica bulimia che da sempre lo porta a scivolare dappertutto e da nessuna parte? Si capisce. La continuità nostalgica di certe armonie – cosmiche, astratte, imprendibili, in definitiva pazzesche – che per i maudlin of the Well sono filtrate nei Tartar Lamb prima, in svariati episodi di “Hubardo” poi? Anche. Il fatto è che, per quante giustificazioni si adducano, “Coffins On Io” rimane un disco del tutto criptico, inspiegabile, insondabile. Un’anomalia di percorso, la si definirebbe: ma nessuna anomalia presenta una tale coerenza interna, una tale (im)perfetta compiutezza. I Kayo Dot rinunciano, per l’ennesima volta, al metal: non sparando all’impazzata con discutibili armamenti crossover (gli stessi che diedero vita all’inascoltabile “Dowsing Anemone With Copper Tongue”, per dirne una), ma dedicandosi anima e corpo all’ardua missione di comporre un disco dark wave. Impresa, incredibile dictu, non solo portata a termine con successo, ma anche con essenzialità (sostantivo difficilmente accostabile al collettivo mutante del Massachussets) e con un lodabilissimo nitore di scrittura.

Basterà, d’altro canto, ascoltarsi con attenzione l’opener “The Mortality Of Doves” (11.53) per cogliere senza fallo l’elemento chiave, il fattore X in grado di trasformare radicalmente la natura di un pezzo a tratti new romantic: l’innato talento, da parte di Driver, di combinare melodie sempre imprevedibili, arrangiandole con uno straniante distacco di fondo che permette ad ogni singolo elemento di rimanere impresso nella mente. La stessa sua voce, fragile, sussurrata, manifesto sonoro di una Sehnsucht esistenziale non sradicabile, completa il quadro delle suggestioni. Solo nel Sylvian che rapsoda sopra bassi Mick Karn di “Offramp Cycle, Pattern 22” (con tremolante e ricorsiva coda retrofuturistica inesorabilmente alla deriva) l’idea sembra trascinata per i capelli, tirata per le lunghe: un possibile effetto collaterale di una concezione di “canzone” antitetica a quello comune. Lo si capisce, anche e soprattutto, nei passaggi di minor durata, asciugati dalle propaggini strumentali: “Longtime Disturbance On The Miracle Mile” ha dalla sua il respiro circolare dei cristallini arpeggi di chitarra e la perfetta linearità del ritmo, laddove invece gli echi vagamente industriali di “The Assassination Of Adam” (con uno dei riff portanti più standard che la storia dei Kayo Dot ricordi) si disgregano in una nebulosa free che singhiozza, palpitante ed ultraterrena. È il preludio all’operetta neoclassica conclusiva, “Spirit Photography”, dolce e minimale modulazione per fiati e sei corde che fluttua in una perenne, scheletrica penombra.

Dati trascorsi e curriculum, e fatta eccezione per “Hubardo”, non sembrava credibile che i Kayo Dot riuscissero a dettare le regole del gioco. Eppure, per la prima volta nella loro storia, e con la scelta più coraggiosa da intraprendersi in questo momento, è stato disinvoltamente infilato un altro strike. Let a new beginning start.

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