Phantom Band
Freedom Of Speech
Phantom Band, capitolo secondo con epilogo.
Li avevamo lasciati nascosti dietro una siepe secca della savana per scappare dalla rivolta dei leoni contro le frustate dei domatori, e li ritroviamo in una atmosfera cosmica e marziale.
Freedom Of Speech (secondo ed ultimo parto del progetto Phantom Band capitanato da Jaki Liebezeit) si apre in un inaspettato mood intrecciato di batteria marziale e rumori elettronici rubati da un disco volante UFO, mentre una voce che sembra provenire da un pianeta lontano (Sheldon Ancel) scandisce comunicati per illuminare le menti umane.
Lo shuttle decolla dalla base di lancio Dodoma per precipitare inesorabilmente nei luoghi più bui e malfamati di Kingston (E.F.1).
Inseguito dai poliziotti giamaicani Jaki s’intrufola nei viottoli fra bancarelle e spacciatori nel dub/reggae incalzante di Brain Police fino a nascondersi in un locale dove passano dub/rock di seconda scelta (No Question). Qui un giovane rastafariano gli offre della marijuana ben confezionata (Relax) generando una sonnolenza improvvisa fatta di viaggi e sogni cosmici di bassi dub gonfi e concentrici e synth da cabina di comando scassata, rincorsi dalla voce ansiogena di Sheldon Ancel.
Il risveglio da incubo post trip di Trapped Again cede il passo al reggae infarcito di elettronica ed echi dub di Experiments.
Raccimolate le forze ed i cocci rotti, il povero Jaki riassembla la sua navicella (Dream Machine) seguendo le istruzioni dettate dalle visioni mistiche generate dell’erba miracolosa, per poi decollare ed imbattersi in un buco nero senza via d’uscita.
Un viaggio nell’avanguardia pura fra reggae, dub, afrobeat e prog lunare che trova in Freedom Of Speech il suo epilogo inevitabile.
Troppa carne al fuoco genera un fumo nero inconsistente difficile da bloccare negli schemi dei generi.
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