R Recensione

6/10

Benoit Pioulard

Temper

Benoît Pioulard, anzitutto, non è francese. Si finge tale, chissà perché. Lo fa sin dal suo primo disco, pubblicato giovanissimo due anni or sono (“Précis”). Lui è del Michigan, si chiama Thomas Meluch, e vive a Portland. È un polistrumentista che ama nascondersi: dietro allo pseudonimo, e dietro ai suoni.

Il suo folk ebbro di riverberi è legato a un’estetica del confuso, dell’indeterminato, del fuori fuoco, dell’indistinto. Melodie zuccherine galleggiano e a tratti affogano in mezzo a strumenti assiepati senza ordine: chitarre acustiche, in primo piano, ma anche arpa, violoncello, fisarmonica, una batteria costantemente strascicata e informe. Ne fuoriescono sonorità quasi ambient, che ricreano boschi e paludi stipate di artificio effettistico, come in “The Loom Pedal”, dove la voce intubata fluttua su un costante rumore acquoso – roba da Clientele mixati dai Boards Of Canada.

In questo (spesso compiaciuto) trionfo dell’indefinito, sguazza spenta e volutamente inespressiva la voce di Pioulard. Raramente, anche a volersi impegnare, si capisce cosa dice. Più spesso si intuisce un accenno melodico leggiadro, da indie pop svedese, da C86 disturbato dai riverberi (mi viene in mente a questo proposito un altro solitario americano tra il folk domestico e il freak, che si fa chiamare Fireflies: molto accostabile. E poi Tunng, Dntel, e tutta la folktronica più eterea). Il tutto stratificato verso l’astratto.

Quello che distingue i brani di Pioulard, sempre brevi se non brevissimi, è la predisposizione al noise puro (molto delicato, badate: rumoroso con dolcezza), e la cosa è evidente nei cinque pezzi strumentali che intervallano il disco (“Sweep Generator”, “Ardoise”, “Cycle Disparaissant”, “Détruisons tout”, “Tapyre”), che occhieggiano un po’ al drone, ma molto di più al superfluo. I momenti migliori, allora, sono quelli in cui i suoni sono più intelligibili e Pioulard tocca corde alla Elliott Smith: così nella deliziosa “Ahn” (il pezzo migliore, nonostante il nome evocativo di funesti ricordi calcistici), in “Idyll”, dalla chitarra rustica, o in “A Woolgathering Exodus”, che sfocia in un emozionante finale da saloon, tra «la la la», fischi morriconiani e una coda apocalittica.

Così così altre zone del disco, che non lasciano il segno, disperdendo nell’aria la propria capacità evocativa (“Golden Grin”, “Psysic”, “Brown Bess”), sicché il ragazzo non convince del tutto: la stoffa ce l’ha, la voglia di esplorare pure, ma manca ancora il materiale giusto. Assieme all’acqua ci vuole l’argilla.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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Roberto Maniglio (ha votato 7 questo disco) alle 14:03 del 20 dicembre 2008 ha scritto:

Io gli darei un punto in più.