OM
God Is Good
OM è lo spirito divino, la sillaba creazionista, il la che diede inizio a tutto.
È, in fondo, tutta questione di suono. Tantrico, oscuro, primitivo, sabbatico, e giù ad aggettivare con il sinonimi/contrari aperto sulle ginocchia. Non aspettatevi niente di più, ma soprattutto niente di meno, dal duo più chiacchierato a ragione, sintende della scena doom mondiale di sempre. Basso e batteria: non serve altro per dare voce alla terra, alloscurità, alliniziazione. Strumenti che si intrecciano in morenti anse osmotiche, come preghiere pagane rivolte ad un Dio di non specificata estrazione culturale, o resi spietati, marmorei, impettiti dagli amplificatori, dopo aver fracassato in terra le adamantine lastre sinaitiche dei Dieci Comandamenti. Ribellione e catarsi. Ma ribellione catartica o ribelle catarsi? Non cè molta distinzione, anche se una sorta di rispetto di fondo, che anima con un fruscio o un respiro, per rimanere in argomento la musica degli OM, è avvertibile in entrambe le situazioni.
Emil Amos è il batterista che darà un senso, in un futuro quanto mai prossimo, alle vostre meditazioni.
La notizia, improvvisa, della defezione di Chris Haikus, arrivata immediatamente dopo lincisione del discreto Pilgrimage, giusto un paio danni fa, aveva gettato nello sconforto i seguaci termine quanto mai azzeccato del gruppo, convinti di stare per assistere allo scioglimento definitivo. Lintero tour, allora, era stato cancellato. Motivo in più, se non si fosse capito, di considerare God Is Good, ça va sans dire, una vera e propria manna dal cielo. Daltronde, il già citato Amos non fa nulla per diminuire laspettativa, promettendo new and more varied instrumentation on the new record che, per un lavoro del filone, si può grossomodo tradurre come una ricerca spasmodica e senza confini delleffetto più distensivo, estatico e psichedelico applicabile su mattoni heavy stoner circolari ed ossessivi.
Il disco, finalmente.
Solo perché ci piace attentare alle coronarie altrui con affermazioni del tutto circoscrivibili ad un gusto personale oppure no ci rilasseremo, seguendo il basso ipnotico di Al Cisneros, e con tutta calma diremo di essere davanti alla migliore prova di sempre degli OM. Il che, con molta probabilità, è del tutto vero, in quanto le dichiarazioni della new entry, per una volta lontane dal costruire castelli di illusioni in the name of selfpromotion, si rivelano essere azzeccate. Non vuol dire, per questo, che ci troveremo con una manciata di ballate folk in pugno, ma nemmeno lo avremmo voluto. A vedere da fuori, tutto sembra rimasto immutato rispetto ai segnali precedenti: quattro tracce, mezzora o qualcosa in più di durata totale, copertina mistico-bizantina e motivo di terrore concentrato per lagnostico doc. Non è così, e cominciate a segnare già sulla stecca dei numeri un vantaggio considerevole (non sei, undici, coglionazzo!).
Ciò che in Pilgrimage lo avevano detto anche un po a fatica la title track e Unitive Knowledge Of The Godhead, qui viene riassunto alla perfezione dal mammut sludge di Thebes, quasi venti minuti di raccoglimento dove litanie, versetti, salmi vengono sciorinati, in assoluta concentrazione, dentro un iperspazio di vuoto galleggiante, presto è un modo di dire - squarciato da un pesante martellare che si trascina, Moloch del Nuovo Millennio, in unorda di polvere, lentezza e calore. Amos è assoluto protagonista, metronomo dalle oscillazioni cannabinoidi per cui ogni colpo, ogni tamburellare, ogni ricorrere ai piatti risuona, propriamente, come il Verbo della Genesi. Meditation Is The Practice Of Death attacca subito la trance appena interrotta, ma il mood è sensibilmente diverso, meno terreno e più astratto, aereo, fluttuante: la cateratta di flauti che scivola, angelica, sui ritmi funerei del duo, è di unevocazione sconvolgente.
Metamorfosi, da tangibile gravezza fisica a spettacolare pirotecnia psichedelica, che assume forme e connotati squisitamente nuovi nellultimo dibattersi di Cremation Ghat, suddivisa in due brevi atti. Tom, handclappin, linee di basso, qualsiasi cosa che aiuti a trainare lo sviluppo del pezzo verso una scansione invasata, sorda, vivace ed incalzante (I) guidano poi ad una salita tortuosa, rigenerante, dove il sitar musica una soundtrack daltra dimensione per un film sulla vita di Castaneda e del suo alter-ego, il maestro Don Juan (II). Trascinante quanto ineccepibile, ci dà la possibilità di conoscere gli OM più suggestivi che, forse, nelle ultime prove avevamo un po lasciato da parte, per abbracciare la reiterazione sonora pura e semplice. Scontato dire che il disco si inerpica, senza fatica alcuna, sul trono del doom 2009.
God Is Good, certo: ora possiamo fregiarci di averlo sempre saputo...
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