Interpol
Interpol
Con gli Interpol non mi ero lasciato benissimo. Dal grande amore per Turn On The Bright Lights alla disillusione dell’incontro/scontro con Our Love To Admire, tragicamente, passano tutti gli stereotipi della classica storia spentasi nell’abitudine.
Un disco, Our Love To Admire, che, alle mie orecchie, era (e rimane) l’espressione di una formula ormai spremuta al limite delle sue possibilità. Una formula efficacissima, certo, figlia però della venerazione per un concetto stilistico estremamente rigido e per questo, forse, irrimediabilmente limitato. Gli intrecci dei bicordi di Kessler, le pulsazioni del basso così ben cesellate nei solchi elegantemente eighties della batteria, le melodie sontuose di Banks e quel suo tono epico, drammatico, più che mai funzionale all’economia del suono, hanno dato vita ad uno stile eccezionalmente nitido che però, nei cinque anni che dividono il prodigioso esordio dallo spento terzo disco, si è progressivamente isterilito, esaurendo mordente ed originalità.
Come una infida ex, però, gli Interpol non si dimenticano. E ogni volta che un nuovo lavoro si profila all’orizzonte una certa ingenua agitazione si ridesta e si impadronisce di me, indugiando da un lato nella speranza, dall’altro nella paura. Le interviste rilasciate ultimamente dal gruppo hanno suggerito intenti revivalistici tutt'altro che coraggiosi (la volontà di recuperare il suono "originario" e non quella, più stimolante, di superarlo) e tali dichiarazioni, insieme ad indizi quantomeno sospetti (fra cui il nuovo album senza titolo, classico segnale di un idealistico nuovo inizio), hanno reso plausibile l'ipotesi di un definitivo parcheggio dei newyorchesi in soffitta a fianco dei vari Bloc Party, Franz Ferdinand, Editors e consumati soci vari.
Poi, finalmente, il disco arriva. E gradualmente, traccia dopo traccia, la paura svanisce. Nessun crollo verticale, nessuna indecente pantomima, nessun necrologio da dover scrivere. Solo, la presa di coscienza di un altro rinvio a giudizio, con la sensazione netta, però, di un lavoro comunque più interessante dell’ultimo sfornato.
Interpol è sì un ritorno alle origini, nel suo riabbracciare atmosfere dense, claustrofobiche ed oscure, ma è anche un disco che, senza rischiare nulla, tenta una sorta di misurato passo in avanti. Così, se come al solito bastano due secondi di ascolto per riconoscere gli autori, è altresì possibile stupirsi delle sincopi e dei controtempi quasi elettronici della batteria di Fogarino, dell’uso massiccio di voci trattate e doppiate (Banks, impolverato e belante come non mai, urticante nel suo romanticismo, pare a volte evocare Layne Staley), di spigoli chitarristici e stacchi che sempre più volentieri cedono il posto alla fluida continuità dei sintetizzatori, di un basso che, distante dalle funamboliche evoluzioni di Turn On The Bright Lights, spesso predilige ed antepone alla frase melodica il corpo sonoro. Il tutto diluito in un’architettura che in continuazione flirta con il concetto di crescendo (esemplare, a questo proposito, il riff unico di Lights, per la verità convincente (d)a metà, assemblato attraverso addizioni continue fino al raggiungimento di un prevedibile - ma efficace - climax finale). Interessante e, a mio avviso, miglior traccia del lavoro è la teatrale, graffiante Memory Serves, cadenza lenta ma inesorabile, profondità, buone melodie e il riscatto di una certa eccessiva omogeneità in quell’elogio del levare che è il finale del pezzo.
Non mancano gli episodi più classici, tutti racchiusi nella prima parte del lavoro. Emancipandosi parzialmente da quello sterile manierismo che le aveva fagocitate, canzoni quali Success, Summer Well e il singolone di turno Barricade si fanno ascoltare comunque volentieri, ponendosi a metà via fra la brillantezza degli esordi e l’appannamento degli ultimi tempi.
Di Interpol convince meno il secondo lato. Always Malaise (The Man I Am) e la conclusiva The Undoing pagano un prezzo non indifferente in termini di compattezza, Safe Without è penalizzata da un ritornello eccessivamente enfatico, ridondante, dal peso specifico difficilmente sostenibile. Della pretenziosa triade di brani collegati l’un l’altro posta in chiusura dell’album si salva con onore e per originalità l'inizio di Try It On, mentre All Of The Ways, praticamente solo voce su feedback e assalti di synth anni settanta, non esce da un pantano in cui con ben altra maestria seppero muoversi i primi Tv On The Radio.
In sostanza un album ancora una volta interlocutorio e al contempo assolutamente dignitoso che, al solito, farà la gioia dei fan accaniti e non deluderà più di tanto gli altri ascoltatori. La band newyorchese rimane una di quelle ex che riesce a farsi ricordare per i motivi dell’innamoramento, e non per la delusione della rottura.
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