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R Recensione

6/10

Turnstile

Time & Space

Per quanto continui ad ascoltarne con una certa regolarità, i meccanismi di funzionamento dell’hardcore contemporaneo – o, per meglio dire, della ricezione critica dell’hardcore contemporaneo – non mi sono ancora del tutto chiari. I Turnstile di Brendan Yates, in questo loro secondo “Time & Space”, sono pervasi dalla febbricitante ambizione giovanile di riprodurre tutto il conoscibile nel formato a loro più congeniale, quello del brano ipercompresso e sparato in the face. Ecco che, ad esempio, tra le affilatissime chitarre garage di “High Pressure” martella un indiavolato piano rockabilly: il d-beat insistito di “Big Smile” rivela in controluce un’anima swing; dalle sovrastrutture quasi shoegaze dell’effettato riff d’apertura di “Can’t Get Away” salta addirittura fuori un robusto midtempo à la Madball, qui e lì puntellato da iberismi scorticanti (i furono Hellacopters e Muletrain sono in allerta). E così via, saltando di palo in frasca, da una suggestione all’altra, senza avere il tempo materiale per metabolizzare quest’enorme mole di input: funziona così, prendere o lasciare.

A dire il vero, la tentazione di lasciare – dopo l’ennesimo ascolto in cui tutto ciò che si fissa è un insieme disorganico ed approssimativo di frammenti, fiammate, intuizioni sparse – è forte. Viene in mente la versione popolare del Lemma di Borel-Cantelli: date ad una scimmia una tastiera del computer e, in un tempo infinitamente lungo, riuscirà a comporre tutti i sonetti shakespeariani. Per “Time & Space”, purtroppo, non c’è data la prova incontrovertibile dell’eternità. Anzi: tutto dev’essere digerito, liofilizzato al massimo grado. Senza fare paleocronologia e pretendere di anteporre l’uovo alla gallina, peraltro, già i Refused di “The Shape Of Punk To Come” e i Nations Of Ulysses di “Plays Pretty For Baby” (dischi, rispettivamente, di venti e ventisei anni fa) avevano trasformato la loro rumorosa dialettica in una travolgente enciclopedia del crossover a cavallo tra i millenni: qui il tentativo è didascalico e superficiale, una sorta di vorrei-ma-non-posso che svuota di senso gli intermezzi (la bossa digitale di “Bomb”, la lounge di “Disco”), disperde oltre misura le idee vincenti (i flanger alienanti della seconda metà di “Generator”, la maleducazione strillata a pieni polmoni di “Right To Be”, l’hardcoremericana un po’ tamarra di “Come Back For More” banalizzata dai breakdown metalcore di “H.O.Y.”) e confeziona pure momenti di autentico kitsch (come nell’impostazione crooneristica del pop punk di “Moon”). Di brani buoni, intendiamoci, non ne mancano, specialmente quando le pretese post-moderne vengono tenute a bada e si abbassa la paletta dell’acceleratore – i nuvoloni slayeriani che si addensano in “(Lost Another) Piece Of My World”, il mosh conclusivo di “Time + Space” ingentilito da coretti di supporto –, ma l’impressione è sempre di assistere ad una performance pirotecnica cui qualcuno, o qualcosa, abbia sottratto almeno metà della sua potenza effettiva.

Poi, per carità, parliamo comunque dei Turnstile, mica dei Big Ups. E ci sarebbe mancato altro.

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