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R Recensione

7/10

Touché Amoré

Is Survived By

La California notoriamente ha dato i natali ad alcune fra le genealogie più brutali del rock tutto, a dispetto delle immagini solari e da cartolina che la tv generalista ci propina da un trentennio buono.

I Drive Like Jehu sono i capostipiti di una lunga serie di band che hanno iniettato nei tre accordi e nelle frenesia sanguinolenta (ma essenzialmente suicida) dell'hardcore-punk concetti spiritualmente più complessi, e musicalmente più articolati. Non è un caso se con Froberg e compagni, a inizio anni '90, si celebra il battesimo del progressive-hardcore: i brani si aprono e si scompongono, le successioni di accordi diventano appannaggio dei virtuosi dello strumento, la voce si frantuma e sanguina ancora, ma sembra aver raggiunto un grado di consapevolezza truce che prima mancava. La gioventù è finita, i Drive Like Jehu sono figli dell'epoca del silenzio esattamente come gli Slint.

I Touché Amoré sono ragazzi californiani che hanno deciso di rigare dritto: ridimensionano le ambizione strutturali alla Renzo Piano dei Drive Like Jehu, fanno qualche passo indietro, verso un post-core tirato a lucido e con meno fronzoli. Sono i fondatori dell'autoproclamatasi nuova wave del post-hardcore californiano, e sono in buona compagnia: Defeater, La Dispute e Make Do And Men sono solo alcuni fra i nomi più in voga sulla costa ovest, e meriterebbero tutti qualcosa di più di una menzione cruda.

I Touché Amoré però volano più in alto. Lasciano sempre il segno, anche nel 2013, a conferma della discreta vitalità non solo della California, ma di tutta la scena indie-americana, negli ultimi mesi: “Is Survived By” recupera la lezione dei maestri post-tutto e la trasforma in una lunga corsa, in cui raramente puoi riprendere fiato.

La voce si sgola fino a sanguinare, come da tradizione del genere: imberbe e sfrontata, afflitta sempre da un malessere incurabile, eppure a suo modo rocciosa, grintosa. Le capacità strumentali della band consentono di creare un sound aerodinamico e ricco: math-rock millimetrico, noise lievemente slabbrato, qualche arpeggio più tenero per rompere la monotonia (la splendida introduzione di “Harbor”).

I ritmi restano però tendenzialmente frenetici e ai confini del delirio, raramente concedono tregua.

L'album colpisce perché i suoi nervi sono tesi fino allo spasmo, i denti ringhiano e gli occhi, traslucidi, sembrano iniettati di sangue. L'unico limite è forse una qualità melodica non sempre memorabile: se le tessiture strumentali sono interessanti, se la voce gioca un ruolo centrale, la costruzione melodica qua e là perde i colpi, ghettizzata nel cerchio delle arringhe e dei ritornelli che dilaniano sempre e comunque le stesse due-tre note.

Poco male: la botta di adrenalina resta tale, e tutti gli appassionati di indie-rock, anzi di rock e basta, possono divertirsi a dovere.

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