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R Recensione

6,5/10

LVTVM

Adam

Una frazione di secondo sarà il tempo necessario, a chi non disdegna le generalizzazioni, per bollare i LVTVM come sottoprodotto provinciale dei MoRkObOt (come se Lodi, ops, L’odi fosse caput mundi…) e “Adam” la creatura prima nei cui cromosomi si specchiano parimenti indiscutibile talento e imperdonabile hybris. Tutta colpa della formazione, dove i due bassi di Carlo Bellucci e Isacco Bellini soppiantano egregiamente i personalismi chitarristici di troppa musica estrema (ma v’è anche un synth, ottimamente suonato da Mike Marchionni, che svolge a più riprese un ruolo essenziale). Ora, volete sorridere? Un brano chiamato “Hybris” è realmente presente nella scaletta del disco, alla settima posizione: si tratta di un’onesta cavalcata post metal (tra le altre, per atmosfera e materialità, ne trovate di simili, anche se stirate all’ennesima potenza, nell’acclamato esordio degli olandesi Izah, “Sistere”) alla quale, solo negli ultimi istanti di vita, spuntano da sotto le pedaliere delle inconsuete propaggini space. Il che ha senso, visto che, a seguire la didascalia romanzata che il quartetto toscano impiega per sviscerare la polpa del proprio concept, si tratta dell’attimo in cui l’uomo, peccando di tracotanza (da qui, naturalmente, il titolo), ardisce abbandonare la propria animalità per trascendere al divino.

Se nell’antro della spelonca abitata dai LVTVM confluiscono rivoli svariati e molteplici – l’eterogeneità di spunti ed influenze che permette, ad un brano estremamente composito come “Twalking”, di abbandonare ben presto strasentite nicchie Supernatural Cat per ricercare ombreggiature dark wave in flanger prima, slap arabeggianti à la Primus poi (scelta, questa, un po’ troppo sopra le righe) –, la pietra della caverna rimane immutabile ad ogni azione esterna perturbante. Sia che, in “Session I”, i toni si colorino di sci-fi, sia che “Internal Disease” scelga di semplificare l’apparato dei riff in direzione stoner, o che le tempeste soniche degli Explosions In The Sky si ritaglino il proprio spazio nella contemplazione armonica di “Gnosis” (la conoscenza metafisica, kubrickiana, dalla corporeità alla cosmogonia), il quartetto si muove in zone prive di ambiguità, di coni d’ombra. Il fondo, strumentale, si stabilizza su tradizionali frequenze post-core, cui l’attribuzione o la sottrazione di dettagli determinano sfumature d’opposta polarità. Non potremmo essere, naturalmente, più lontani dai MoRkObOt, non fosse altro per la stratificazione in fase di arrangiamento dei LVTVM che a Lin, Lan e Lon (interessati ad altre questioni: scansioni, impatto, reiterazione) manca completamente. La conclusiva “Nemesis”, ad esempio, è una stonata chiosa horror (organetto fulciano, affondi plumbei) che riporta alla mente alcuni frangenti del notevolissimo first act dei catanesi Aetnea: tutt’altra cosa rispetto alle sofisticate, struggenti ragnatele jazz intessute nelle melodie matematiche di “Fthonos Theon” (un episodio che si lascia ricordare ed ascoltare a lungo) o ai respiri cripto-fusion di “The Dreamer” (rintocchi, seppur vaghi, degli Scale The Summit).

Ci si intenda: non è un disco perfetto. All’inappuntabilità del crinale tecnico si oppongono, spesso, diverse incertezze nel suo manifestarsi. Non sempre la forma si adatta al contenuto: tipiche fragilità di chi cerca il grande balzo in avanti già al primo gattonare. Ne risentono l’ascolto e, soprattutto, la sua longevità. Ce ne dispiace: di dischi come “Adam”, l’underground italiano avrebbe disperato bisogno.

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