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R Recensione

7/10

Parts & Labor

Constant Future

I used to be an hurricane, now I’m just a breeze” : miglior consacrazione pop di questa proprio non poteva esserci. Nel momento in cui davamo i Parts & Labour per persi, deceduti, passati ad altra realtà con il forte ridimensionamento subito dal mediocre “Receivers”, ecco che la mano dei redivivi spunta dalla terra sepolcrale, si agita compulsivamente a contatto con l’aria gelida della notte e smania per uscire, ridestata a nuova vita. La cerimonia funebre, insomma, è rinviata a data da destinarsi. Una scena paradossale, senza alcun dubbio. Ed un nuovo disco, “Constant Future”, il quinto in ordine cronologico, che viene percorso da cima a fondo da un sospiro di fiero revanscismo e si propone di rettificare la nuova formula di easy listening spinto, abbandonando per sempre le scorie noise ed i calcinacci cacofonici che sfregiavano d’impatto le melodie di “Mapmaker” (2007), lavoro formalmente ineccepibile al quale, per altro, tende impercettibilmente e istantaneamente.  

Di strettamente newyorchese il trio non conserva poi molto, se escludiamo una certa propensione all’omogeneità reiterata che potrebbe trovare riscontri, per quanto vaghi ed indefiniti, nelle detonazioni psichedeliche di illustri colleghi come gli Oneida. Cresce, invece, la propensione al labor limae, alla riduzione dello scheletro sonoro verso un abbozzo che contenga i germi minimi ed indispensabili per uno sviluppo organico della musicalità del brano, ed il divertimento nel farlo risaltare in mezzo a blocchi sovrapposti di contrasti tonali. L’asciutta armonia sintetica di “Fake Names” deve perciò fare i conti con un inaspettato, dirompente dinamismo ritmico, che si ripete tra le altre cose in mezzo alla paranoica nevrosi di “Outnumbered” e nella sublime linearità della toy music di “Pure Annihilation” (a dispetto del titolo, simile alle gentili spezzate degli ultimi Autumns). Potrebbe infastidire il nuovo, vecchio regime dei Parts & Labor, fosse anche perché a tratti sensibilmente artefatto e plastificato, nella sua ansia di rimettere tutto a posto ciò che prima veniva allegramente scombinato e demolito dalla furia dada (“Skin And Bones” è, in effetti, eccessiva). Ma gli inevitabili squilibri che derivano dal rigoroso ordine autoimposto sono, a tratti, sciolti negli automatismi marziali di synth e batteria (“Echo Chamber”), nella creazione di inossidabili ganci futuristici dalla congenita freddezza wave (“Rest”) e nella rumorosa deformazione ludica di innocue filastrocche (“Hurricane”).

Tuttavia la nostalgia talvolta assale, non si vuole illudere nessuno: l’esplicita scelta di non affidarsi allo strumento base del noise globale, la chitarra, sottrae inevitabilmente nerbo e spinta propulsiva a molte delle invenzioni di “Constant Future”, pensate ed elaborate ora su un piano totalmente diverso. Non rischiamo di bestemmiare se indichiamo nella frangia più monocroma e polivalente dell’art pop l’oggetto del nuovo interesse artistico del trio americano. Che sotto questo punto di vista, è il caso di rilevarlo, ne esce nondimeno trionfatore: alcune canzoni cosiddette, lungi dall’essere perfette, colpiscono in ogni caso per maturità di mezzi espressivi (il kraut miniaturizzato della title-track), improvvisi lampi dal passato (il tumulto che cresce sotto la pelle della breve “Bright White”) e splendida padronanza della materia melodica (in “A Thousand Roads” pare di risentire addirittura la versione Hüsker Dü di un Luke Steele del periodo Sleepy Jackson!).

Da mettere alla prova, per sfidare la propria diffidenza: da ascoltare, per piegare il proprio pregiudizio. Da conservare, infine, come tassello rigenerante di una scassata tappa evolutiva verso l'utopia (s)confortante della canzone perfetta.

V Voti

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