Queensrÿche
Operation: Mindcrime
I remember now
I remember how it started
I can’t remember yesterday
I just remember doing what they told me
Ritrovarsi davanti a lavori come questi non è mai semplice. Non a caso dietro all’ombra di quest’opera marciano intere schiere di estimatori che gridano al capolavoro, contrastati da sprezzanti giudizi di mediocrità e da chi arriva a definirlo un disco melenso e gratuito.
Metterlo, come molto fanno, nel calderone del Prog Metal sarebbe corretto in chiave storica ma risulterebbe forzato in campo musicale. Avrà, è vero, un’importantissima influenza in tutti i gruppi che di questo genere saranno i principali esponenti, ma resta un concept legato a suoni più tradizionali, per quanto aperto e innovativo anche nella struttura.
Vederlo come tassello che sfonda le porte dell’hard rock e dell’heavy metal, lasciando ad altri il compito di varcare la soglia, è forse l’immagine meno sbagliata che se ne può dare.
È il disco che Bruce avrebbe voluto fare con gli Iron Maiden (letterali sue parole) ma, e non ne vogliano i fan di Eddie, non ci sarebbe stato verso, neanche se il periodo buono di Harris e soci non si fosse consumato nel giro di qualche disco.
Nel descrivere l’album ci sarebbe da perdersi in meandri infiniti e non resta che lasciare quasi tutto a chi si avvicina alla storia di Nick e alla sua caccia assassina. La Seattle degli anni ’80, ameno luogo di disagio sociale, viene riproposta in chiave fantascientifica con un intreccio narrativo che spazia dalla tossicodipendenza agli omicidi, dagli affabulatori politici alla sessualità, concedendo libertà di interpretazione e spunti di riflessione sociale quanto filosofica. Il tutto in modo affatto intellettuale ma decisamene semplice e aperto.
Comprendere la trama e i risvolti che si nascondono dietro alle canzoni diventa ancor più rilevante per la capacità con cui si cerca di rendere in suono le immagini di cui si canta.
Grande merito và a Geoff Tate (da alcuni considerato una delle migliori voci in assoluto) che si cimenta in un lavoro dove raggiungerà una prestazione tra le più alte che abbia mai proposto. Di pari c’è da rendere omaggio anche alle capacità musicali del resto del gruppo che riesce a rielaborare anche l’ispirazione tratta da The Wall dei Pink Floyd.
In primo piano, ecco forse il punto in comune con alcuni lavori degli Iron, il basso di Eddie Jackson, che resta sempre in mostra, a dettare le regole del gioco.
Così dopo una doppia introduzione il disco inizia su ritmi AOR e ritornelli epici scanditi dal succitato basso (Revolution Calling). Ritmo incalzante che aumenta di violenza nella title-track, impressionante per impatto e da atmosfere di soggiogamento.
La ferocia aumenta, toccando forse il suo apice, nella seguente Speak, tanto incalzante quanto capace di avvolgere l’ascoltatore e conquistarlo definitivamente dentro al mondo del Dottor X. La voce regala suggestioni rare, mostrandosi in tutto il suo splendore lungo Spreading The Disease e esaltando il lirismo di The Mission.
Duetto con Pamela Moore nella Suite Sister Mary, dove strutture gregoriane incorniciano la prostituta fattasi suora, che ricopre il ruolo più interessante, a livello psicologico, del concept.
Senza dare tregua (che arriverà con l’atmosfera angosciante della seguente Eletric Requiem) la Regina avanza con The Niddle Lies, il pezzo più veloce del disco che richiama (con un gioco di opposte suggestioni) la melanconia di Breaking The Silence.
Aggressività, epica e assoluta intensità di pathos sono l’essenza dei tre pezzi di chiusura che non c’è modo di descrivere efficacemente., delegando il compito all’ascolto.
Basso e voce spiccano su un comunque onesto lavoro di batteria e chitarre (quest’ultime efficaci nei loro assoli sempre calati all’interno dell’atmosfera generale e mai a ricercare gratuito protagonismo).
Siamo davanti a un lavoro particolare e ben riuscito, che lascia perplessità perché da un lato non sempre semplice e diretto, dall’altro mai eccessivamente complesso e pesante. Così come la storia che propone, il disco si presenta troppo semplice per chi ama l’intellettualismo e troppo complesso per chi preferisce le vie dirette.
Ancora lontano dal successo commerciale che ebbe il successivo Empire (1990) e distante dai suoi due predecessori (soprattutto meno gelido di Rage Of Order – 1986) Operation: Mindcrime accompagna un fascino fatale a una ricerca musicale degna del più grande rispetto (anche per chi non ama il suono proposto).
Poche sperimentazioni elettroniche e ritmi orecchiabili (per quanto più duri della media che girava negli anni ’80) per qualcosa che è allo stesso tempo eclettico e classico.
Perhaps you need another shot
Tweet