A Classifica dischi 2015 - Marco Biasio

Classifica dischi 2015 - Marco Biasio

Scivola via, ingiuriato e non rimpianto, questo 2015 che ben poco ha fatto per farsi voler bene. Sono stati dodici mesi di schizofrenica dicotomia, in cui l’assoluta, luttuosa desolazione della musica intesa come microcosmo di relazioni umane ed affettive (costellato di scomparse, premature o meno, dolorose come coltellate: Pino Daniele, Demis Roussos, Mike Porcaro, B. B. King, Chris Squire, Ornette Coleman, Giancarlo Golzi, Scott Weiland, l’amatissimo Lemmy) ha fatto da contraltare allo sbocciare, tumultuoso, della musica come mezzo espressivo di creatività e fecondità intellettuale senso strictu. Per chi scrive, in particolare, il 2015 si è confermato come anno chiave per la resurrezione, e critica e commerciale, del jazz: stridente, lacerante, acuto, morbido, carezzevole, grintoso, sordido, violento, sfrontato, nero, bianco, giallo, nazionale, internazionale, di nicchia, mainstream, declinato in tutte le forme e in tutti gli aspetti possibili ed immaginabili. Corsi e ricorsi della storia che, uniti al sempre crescente interesse per la black music di old e new generation e la consacrazione del “poptimism” come assodato fenomeno socioculturale (oltre che, anche se qualcuno avrebbe da obiettare, all’accentuato e crescente declino della centralità del rock), hanno inequivocabilmente colorato trecentosessantacinque giorni tormentati ma, a modo loro, indimenticabili. Quanto segue è un sunto personalissimo, e in quanto tale opinabile, dell’annata che è stata.

1) Kamasi Washington – The Epic (Brainfeeder, 173:36)

Oscilla lì, sull’orizzonte degli eventi tra la storia e l’ignoto, questo triplo mastodontico eppure leggiadro, fatto di carne, sangue e sudore eppure cosmico, universale. Figlio del melting pot e della tradizione, del coraggio e dell’emozione. The Epic è diario, zibaldone,vaso di Pandora ricolmo di delizie assolute, ultraterrene. L’ho subito pensato al primo assaggio, lo ribadisco oggi, dopo mesi e mesi di ascolti febbrili, concerti pulsanti, meditazioni insistite: fra quarant’anni ne parleremo con gli stessi termini che oggi, a posteriori, utilizziamo per A Love Supreme del nume tutelare Coltrane, per A Shape Of Jazz To Come del compianto Ornette, per A Kind Of Blue o Bitches Brew di Miles Davis, per Spiritual Unity del trio di Albert Ayler. C’è tutto questo, e molto di più, in un capolavoro modernissimo, già instant classic.

2) Paolo Spaccamonti – Rumors (Santeria / Escape From Today, 39:37)

I cinque migliori chitarristi italiani del momento sono Adriano Viterbini, Xabier Iriondo, Egle Sommacal, Stefano Pilia e Paolo Spaccamonti. Se volete sapere perché l’ordine è rigorosamente crescente, non dovete far altro che ascoltare il terzo full length di Paolo, Rumors. In questo universo ipersaturo di chitarre – spesso suonate male, ancor di più inutili, banali –, scoprire le sfaccettature di un disco del genere è, niente meno, un raro regalo a voi stessi e un antidoto alla bruttura di ciò che vi circonda.

3) Squadra Omega – Altri Occhi Ci Guardano (Sounds Of Cobra / Macina Dischi, 67:04)

L’estasi, la catarsi, la rivelazione. Sacra è la trinità e ancor più sacro il terzo di tre. Figuriamoci, poi, se la Squadra Omega non sciorina numerologia con un preciso, ulteriore senso alle spalle. Gli occhi sconosciuti che guardano l’ascoltatore sono quelli degli innumerevoli generi che, nel magico vortice dell’improvvisazione, si accavallano e si mescolano con mirabile coesione. Altri Occhi Ci Guardano – oltre la trance ipnotica de Il Serpente Nel Cielo e l’immaterialità trascendente di Lost Coast – è il monumento jazz rock che l’Italia non ha mai avuto, l’inno alla libertà cui ci eravamo disabituati. Stordente e devastante: tutto in uno, fino alla fine.

4) Mombu + Oddateee – Subsound Split Series #3 (Subsound, 43:29)

Il (modesto) ritorno in campo degli Zu e l’oscurità underground dell’MC newyorchese che accompagna i Mombu in questa incandescente calata tra hip hop suburbano, jazzcore urticante e free jazz di rimessa hanno, di fatto, compromesso la visibilità e la diffusione di questo split in vinile, terzo capitolo della riedizione – made in Subsound – di gloriosi progetti quali In The Fishtank e Peel Sessions. Un assoluto peccato, perché il disco è il vertice della complessa ricerca musicale portata avanti con tenacia da Luca Mai e Antonio Zitarelli negli ultimi anni: un tassello fondamentale ad una carriera già ricolma di soddisfazioni, sia per l’una che per l’altra parte chiamata in causa.

5) Makaya McCraven – In The Moment (International Anthem Recording Company, 73:31)

Non ce ne vogliano i peraltro eccellenti dischi di Matana Roberts, dell’accoppiata Colin Stetson/Sarah Neufeld e del trio delle meraviglie Reijseger/Fraanje/Sylla, ma il disco jazz dell’anno, dietro a Kamasi Washington, lo scrive questo ragazzotto franco-ungherese, batterista a capo di una serie interminabile di trio e quartet da sogno. La ricetta è semplice (?): improvvisazioni à go-go nella downtown di Chicago, fedelmente registrate e catturate su pc, poi rielaborate in un secondo momento, con un immenso lavoro di editing, overdub, cut’n’paste. Così session completamente libere diventano brani, segmenti suonati in un dato contesto vengono inseriti in contesto altro e diventano, contestualmente, altro anch’essi. Il dato realmente stupefacente, tuttavia, è la musicalità spiccata del risultato finale: un calderone di nu jazz, black music, suggestioni astrali, groove devastanti, cerebralità avantgarde. Musica per la mente, i piedi, il cuore.

6) Paolo Saporiti – Bisognava dirlo a tuo padre che a fare un figlio con uno schizofrenico avremmo creato tutta questa sofferenza (Orange Home Records, 20:55 + 20:00)

Lo sdoppiamento è compiuto: da una parte il Saporiti raffinato cantautore british, dall’altro il Saporiti demone rumoristico, compare dell’Iriondo furioso col quale, quest’anno, ha esordito anche con l’omonimo first act dei Todo Modo. Sono pochi brani, tra cui una cover dell’Hotel Supramonte faberiana che, nel secondo disco, diviene un abisso infernale, una geenna spaventosa di sibili e lamenti. La direzione sembra tracciata: anche nel lato acustico gli squilibri superano per numero gli afflati poetici, le seghettature la spuntano sulla bellezza degli arrangiamenti. Non è più così eretico accostare Paolo ai grandi del nostro cantautorato d’avanguardia degli anni ’70, troppo spesso dimenticati.

7) Father Murphy – Croce (The Flenser, 35:06)

Di disco in disco, i Father Murphy si fanno sempre più disturbanti, rumorosi, catartici. Francesco Targhetta sottolinea il lato performativo di questa musica e io non posso che essere perfettamente d’accordo con lui: le soluzioni sonore, perdute le molte sfumature del precedente capolavoro Anyway, Your Children Will Deny It, annegano in un oceano di rumore bianco e di detriti industrial. I Throbbing Gristle zavorrati dal senso di colpa penitenziale. Un LP non perfetto, ma a suo modo indimenticabile: portabandiera di uno stile che non ha, né può avere imitatori, in Italia e all’estero.

8) Stefano Pilia – Blind Sun – New Century Christology (Tannen Records / Sound Of Cobra, 39:30)

Come un brano di cent’anni fa può essere il perno di una complessa, universale narrazione post-moderna sulla visionarietà cristologica e su un modello soteriologico d’esistenza. Stefano Pilia è un musicista eccezionale per intuizioni ancor prima che per fattiva realizzazione (pure tecnicamente superba, come in questo caso). Va a finire che un semplice disco “blues” (virgolette d’obbligo) si rivela lo specchio di varie e contrastanti tensioni semiotiche, di stili che derivano l’uno dall’altro e l’uno con l’altro si cannibalizzano. Semplicemente magnifico.

9) The Decemberists – What A Terrible World, What A Beautiful World (Rough Trade, 52:57)

L’anno della capra, alla fin fine, non poteva essere peggiore di così. Tuttavia, quando, dopo vent’anni di carriera, svariati dischi al top, contingenze personali sfavorevoli, gruppi come i Decemberists riescono ancora a sfornare dischi del genere, ci si accorge che i migliori della classe lo sono sempre, e non solo quando tutte le condizioni sono propizie. Non è il loro lavoro migliore: v’è un generale sentore di disomogeneità, alcuni brani sono obiettivamente trascurabili. I pezzi belli, però – e ce ne sono, molti –, sono belli davvero. Ancora una volta, la magia si ripete: ti vogliamo bene, mr. Meloy

10) The Selfish Cales – Throw Your Watch To The Water (Autoprodotto, 46:38)

Un disco italiano, in conclusione, non ancora presente nel nostro database. Mentre la penisola impazzisce per l’autoproclamatasi Italian Occult Psychedelia, i torinesi Selfish Cales – assieme a pochi altri: 23 And Beyond The Infinite, C+C=Maxigross – si lanciano a capofitto sull’altro versante della psichedelia, quello freak e coloratissimo degli anni ’60. La genuinità degli intenti e la freschezza della scrittura, oltre ad un paio di intuizioni r’n’r da veri numeri uno, non possono non farli entrare subitamente in Top 10. Well done, guys!

MENZIONE SPECIALE: Motörhead – Bad Magic (UDR / Motörhead Music, 42:57)

Ventiduesimo disco per i baronetti dell’hard’n’heavy. Il disco del quarantennale. Il disco per i 70 anni di Lemmy. L’ultimo loro disco. Il primo brano, una fucilata in pieno volto, si intitola Victory Or Die. Victory, naturalmente: ora e sempre.

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Paolo Nuzzi alle 14:47 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

Bella lista, grazie per aver ricordato le dipartite illustri (che anno di merda da questo punto di vista). Mi incuriosiscono la squadra omega e spaccamonti. Mccraven invece non mi è proprio piaciuto. Grande Marco.

Marco_Biasio, autore, alle 15:07 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

Ma dai, davvero? Come mai? Sono curioso!

Paolo Nuzzi alle 15:41 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

L'ho trovato fuori fuoco, con parecchi passaggi a vuoto e con poca ispirazione ed originalità. Dovrei dare un altro ascolto per argomentare in maniera approfondita, se vuoi...

Marco_Biasio, autore, alle 15:50 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

Sì, sono curioso, anche perché avrei scommesso che ti sarebbe piaciuto. Take your time, tranquillo, ti leggerò volentieri. Nel mentre ti ringrazio dei complimenti e ti consiglio caldamente la Squadra Omega

FrancescoB alle 15:55 del 31 dicembre 2015 ha scritto:

A me invece McCraven è piaciuto tantissimo, lo vedo vicino ai must jazz dell'anno, nonostante qualche lungaggine. Tornando alla lista, mi manca Spaccamonti, e pure la Squadra Omega.