Spidergawd
II
Ad instillare il sospetto che Bent Sæther e Kenneth Kapstad siano ben più che la sezione ritmica (e i due quarti) dei finti novellini Spidergawd cè, di fatto, lo stesso II, il comeback dei norvegesi che segue a strettissima distanza (nove, dieci mesi?) lomonimo esordio per Crispin Glover. Sono ritmi daltri tempi ed altro rock, da catena di montaggio, scritto uno-fuori laltro, lammirevole dedizione di chi equipara il mestiere del musicista a quello dellartigiano, di chi vive dando la vita, continuamente, e non apparendo una tantum sulle scene. Come già i Motorpsycho, appunto. Per chi, daltro canto, ammette candidamente di scrivere canzoni anche nel sonno, non vè nulla di così straordinario. Per tutti i dettagli del whodunit rimandiamo alla precedente recensione, scegliendo di concentrarci in questo luogo sulla musica.
Inciampo numero uno: verso dove puntare gli amplificatori. Spidergawd a dispetto della presenza, in lineup, del grasso sassofono di Rolf Martin Snustad cannoneggiava che era un piacere sulle lande del classic rock, incarnandosi in un suono secco ed antiquato allo stesso tempo. Per la seconda tornata di inediti le carte in tavola si rimescolano, seppur non con la decisione e la radicalità auspicabili: si alzano, quindi, i toni (ma di poco) e si rinfresca, allora, il songwriting (ma in percentuali tutto sommato trascurabili). Il gioco vale la candela in pezzi come Tourniquet, impeccabile e micidiale imbeccata hard rock sporcata da slide lisergiche che suonano quasi come tastiere (i Queens Of The Stone Age di Go With The Flow, gli Spiritual Beggars e gli Spirit Caravan chiederanno i diritti dautore), o nellanthem Get Physical, Deep Purple meet Black Sabbath meet fuzz rock (con un arrangiamento, frizzante e magniloquente, niente male). Si tratta di canzoni che, a ben vedere, si fanno scudo della semplicità desecuzione e del collaudato impatto scenico. Dove si preferisce una maggiore articolazione (le chitarre, zeppeliniane e serpeggianti, di Fixing To Die Blues), o si naviga a vista su stilemi risaputi (il catatonico blues acustico di ...Is All She Says, che si ricollega a Devil Got My Woman (Untitled) del disco precedente, prima di accendersi in una maratona hard-delica mica da ridere), la scintilla fatica terribilmente a scattare.
Il che ci porta allinciampo numero due: in che misura concedersi eventuali deviazioni stilistiche. Non era un disco coraggioso il primo, non lo si può certo definire tale questo (sebbene, va aggiunto, il cantato di Per Borten sia più malleabile). Nessun brano sfonda il tetto dei cinque minuti e mezzo (Empty Rooms, per dire, fissava il cronometro a 14:25) il che, da un lato, limita notevolmente il raggio dazione dellimprovvisazione e, dallaltro, la relega in spazi istituzionalizzati, appositamente previsti dal disegno originale e non come sottile espediente per allungare il brodo. Entrambe le opzioni, sulla carta assai interessanti (sulla scia di quanto hanno fatto, negli ultimi anni, i Pontiak), vengono solo parzialmente sfruttate: Crossroads, più che sullannodarsi e sullo slacciarsi di strofe e ritornello, si dedica allesuberanza strumentale, scivolando da stati di coscienza stoner ad ampi ammiccamenti funk, mentre Caerulean Caribou strizza locchio alla jam e coinvolge il sax di Snustad meglio tardi che mai in una riuscita tenzone acid-jazz (i Causa Sui sono alla porta). Non è un caso che siano questi i brani migliori del disco.
Infine, linciampo numero tre: cosa fare per sfuggire alla decalcomania. Lideale, suggeriamo umilmente dal nostro angolo, sarebbe mandare definitivamente in pensione episodi come Our Time (Slight Return) (larena rock è dietro langolo) e dedicarsi alla cattura dellemozione: quella che anima il vigoroso call&response di Sanctuary, in copula con un ritornello (ed un assolo) che rievoca, ancora una volta, la cristallina magia dellindie rock degli anni 90. Devessere questa la pietra fondante di una ricerca che possa portare ad un terzo full length interamente, fieramente da ricordare.
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