R Recensione

3/10

Moby

Wait For Me

Ma per quale motivo dovrei andare a vedere un concerto di Moby? Ricordo che questa domanda riecheggiò con insistenza tra le pareti della mia scatola cranica per tutta la giornata del 3 Luglio 2003. In mattinata, un amico mi aveva telefonato tutto eccitato dicendomi: “Ho rimediato due biglietti per il concerto di Moby di stasera! Ci vediamo davanti al Palastampa alle nove. Sono bravo o no?”. “A sì sì” – risposi – “sei bravo come sempre. Un mito”. Mentii sfacciatamente, un po’ per affetto nei confronti della persona, un po’ perché era uno che “trovava biglietti” per qualunque occasione, dai reading letterari a Miss Maglietta Bagnata.  

Davanti al Palastampa quella sera c’erano tremila persone in attesa del fenomeno del momento, mentre il sottoscritto tentava di affogare quella tormentosa domanda (“Ma per quale motivo dovrei…?”) nell’orgia di grassi e colesterolo di un panino enorme ripieno di salsiccia, crauti e una sostanza gelatinosa che anni prima probabilmente era maionese.  

Il concerto iniziò con leggero anticipo a causa del forfait degli Audio Bullys (probabilmente anche loro si erano chiesti “Ma per quale motivo…?”) e ricordo che per le due ore successive fui sul punto di ricredermi. Il folletto pelato si dava da fare alla grande, suonava quasi tutti gli strumenti, saltava, ballava e cantava. I pezzi estratti dal pluridecorato “Play” così come quelli di “18” scorrevano a meraviglia: “Porcelain”, “Natural Blues”, “We are all made of stars”, “Why does my heart feel so bad?”, mentre ogni tanto qualche piccola sorpresa contribuiva a rendere dinamica la scaletta: le bordate electro-rock di “Bodyrock” e “James Bond Theme”, una curiosa cover di “Creep” dei Radiohead e una interpretazione quasi fedele di “Purple Haze” di Hendrix. Tutto perfetto, la musica, il suono, la vocalist femminile, la presenza scenica, lo splendido gioco di luci e laser.  

Uscendo dal Palastampa fui assalito da un dubbio (un giorno un saggio del quale non posso rivelare l’identità mi disse: “Un uomo che non si mette mai in discussione non è un uomo. È una donna”): e se davvero Moby fosse un genio come dicono e non solo un paraculo nipote di Herman Melville? E se davvero fosse un acuto e moderno compositore - capace di spaziare dalla rave culture all’ambient - e non solo un beota che fa il dj indossando occhiali spessi tre dita e polo consumate sul colletto? E se veramente questo piccoletto fosse talmente “artista” da riuscire a rimanere “indipendente” pur concedendo le sue canzoni a qualunque pubblicitario disposto a pagargliele?  

Ci dormii su, rimandando la decisione. La mattina dopo, capii. Il problema erano i crauti. E soprattutto la loro lenta e disordinata digestione serale. Quel piccoletto ci aveva presi tutti per il culo, come al solito. Solo che questa volta c’ero di mezzo anch’io e – complice la lotta (letteralmente) intestina tra il mio organismo e lo spietato nemico tedesco – ci ero caduto in pieno. Perché non mi ero reso conto che Moby stava semplicemente lavorando. Con professionalità e misurato impegno, ma stava svolgendo il lavoro per il quale era stato (profumatamente, dicono) pagato. Le pose, i saltelli, le luci… era tutto troppo perfetto, troppo pulito. Due ore di concerto senza una goccia di sudore, senza un minuto di coinvolgimento, senza la minima traccia di passione.  

Moby è uno che la carriera se l’è costruita così. Con mestiere e con estrema volontà. Nella società moderna Moby è un eroe, perché è arrivato esattamente dove voleva, con caparbietà, astuzia e impegno. Ci ha provato con la techno (“I like to score” - 1997 ) ci è riuscito con il pop radiofonico e pubblicitario di “Play” (2000) successivamente replicato con “18” (2002), infine ha provato a riciclarsi in chiave dance (“Hotel” – 2005, e “Last Night” - 2008). Non sopporta l’idea di non avere successo, Richard Melville Hall. Il nome preso dal romanzo dello zio ma anche un simpatico anonimato, la dance ma anche il pop, le voci campionate da Alan Lomax ma anche i ritmi techno, gli spot pubblicitari ma anche l’impegno sociale, la volontà di apparire estraneo al music business ma anche le costanti e remunerative collaborazione con il cinema hollywoodiano.  

Visti gli insuccessi clamorosi delle sue ultime uscite discografiche, Moby il genio deve essersi accorto che questa teoria del “ma anche” (una dicitura seconda per idiozia solo alla più nota “senza se e senza ma”) non paga più. Allora si inventa questo “Wait for me”, disco creato dichiaramene “per me e basta”, ispirato ad un discorso sulla creatività tenuto da David Lynch e registrato in casa con l’aiuto di alcuni amici come la cantante Amelia Zirin-Brown e il prodottore Kevin Thomas (già al lavoro con i Sigur Ros).  

Così, con un colpo di coda degno di questo camaleontico musicista, l’uomo che aveva concesso indistintamente (e per contratto!) le licenze per l’utilizzo cinematografico e pubblicitario di tutti i pezzi di “Play” a chiunque ne facesse richiesta (con lo scopo dichiarato di raggiungere il maggior numero di ascoltatori possibile) adesso si chiude in casa e decide di abbandonare la dance per “autoprodurre” un disco che, pur essendo volutamente lo-fi, registrato in maniera scarna e privo di qualsivoglia attenzione negli arrangiamenti, nei suoni e nei pezzi, è praticamente uguale a “Play”.  

E poco importa che – sparsi tra pleonastici e pomposi intermezzi orchestrali (“Division”, “A seated night”), post-rock malfatto (“Hope is Gone”, nomen omen) e il solito rock da titoli di coda (“Mistake”, nome omen parte seconda) – ci sia qualcosa di ascoltabile: il trip-hop all’acqua di rose di “Pale Horses” (che gode di un bel remix ad opera di Gui Boratto), ad esempio, oppure “Walk with me”, pervasa fin dal titolo dal fantasma di David Lynch, o ancora “Shot in the Back of the head”, singolo che si salva rubacchiando qualcosa ai Mogwai e qualcosa ai Portishead .  

No caro Richard. Questa volta non mi freghi più. Non riuscirai a far passare per indipendente coerenza, o per intransigente scelta artistica, la vecchia mossa di tornare sui propri passi (sentire “Study war”) per raschiare il fondo del barile. Per cui di “Wait for me” non dirò nient’altro. Anche perché, ora che ci penso, “Ma per quale motivo dovrei ascoltare un disco di Moby?”.  

 

Sito internet: http://www.moby.com/

Video:

"Shot in the back of the head" (girato da David Lynch) : http://www.youtube.com/watch?v=Q7zQlsLgYhg

"Study War" : http://www.youtube.com/watch?v=mDZV24nw3uM

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C Commenti

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target alle 10:05 del 25 dicembre 2009 ha scritto:

Fabio in forma stellare! Auguri nasalizi a te, MA ANCHE a Moby (senza se e senza ma)! Mi sbaglio o nel periodo techno quest'uomo scrisse il pezzo coi bpm più alti mai composto? Una simpatica canaglia, che ogni tanto ci regala una bella canzoncina che in radio, tra giusy ferreri e i muse, fa solo che bene. Certo, un suo concerto non lo andrei a vedere mai...

Senzanome alle 14:10 del 27 giugno 2015 ha scritto:

Hai detto bene , la traccia si chiamava " Thousand". Purtroppo il record è stato superato da un genere musicale denominato Speedcore.

modulo_c alle 11:43 del 25 dicembre 2009 ha scritto:

discreto

a me non e' dispiaciuto. ci sono dei pezzi veramente da buttare, ma alcuni sono carini. "scream pilots" e "jlft" mi sono piaciuti particolarmente. chiaro che non e' un capolavoro, ma la sufficienza piena mi sento di dargliela...

alfredjarry alle 17:14 del 5 gennaio 2010 ha scritto:

talento e intuito

Sono d'accordo con la recensione, anche se non ho ascoltato il disco ne' ho mai assistito ad un suo concerto... In passato ascoltai un paio di dischi ma non mi ha mai convinto: nessun talento musicale, solo intuizioni commerciali!

synth_charmer alle 14:25 del 18 maggio 2010 ha scritto:

ihih forte la recensione, grande! Moby non lo seguo più da tempo, di lui ricordo solo impressioni piacevoli al momento, ma che si sgonfiano rapidamente.