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7/10

Orchestra Dark Italiana

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Chi ha almeno un paio di capelli bianchi ricorderà gli anni '90 come il periodo d'oro del rock indipendente italiano: piccole Seattle che spuntavano ai margini delle grandi città, Videomusic, e poi lo shock di vedere i C:S.I. primi nella classifica di TV Sorrisi e Canzoni. Quel momento, che sembrava un punto d'arrivo o almeno una rivoluzione del gusto, si è spento in fretta, soffocato dalla miopia dei discografici italiani e dalle difficoltà congenite di un paese che potrebbe vivere di cultura e invece si ostina ad imitare senza riuscirci l'industrializzazione degli Stati Uniti o il terziario del Nord Europa. Di quel periodo ci rimane una lezione che ogni tanto qualcuno dimostra di aver appreso, e cioè che la lingua italiana può sfruttare le asperità del rock come di qualunque altra forma musicale, senza per forza dover danneggiare orecchie e ugole in canti melodiosamente sguaiati, magari soffocati da montagne di violini. Ancora, la sintesi tra rock e melodia cantautoriale italiana può creare piccoli miracoli oggi (fate voi i nomi) come ieri.

L'ultima dimostrazione (in ordine puramente cronologico) di questa possibilità preziosa si chiama Orchestra Dark Italiana. Partiamo dal nome, che potrebbe essere la somma di tre aggettivi: la musica di questi quattro ragazzi è “orchestrata” in modo semplice, ovvero senza sbrodolamenti ariosi e inutili, è “nera” nei testi e nelle ambientazioni, ed è profondamente “italiana” nelle intuizioni melodiche, nella strumentazione e nei temi. Dei C.S.I. si è già detto (e quando “reciti” i testi col tono solenne di “Giappone” il paragone te lo vai a cercare), ma l'ispirazione di questo quartetto traccia una linea trasversale che da quell'esperienza (il Consorzio e tutto ciò che produsse anni fa) approda alla migliore tradizione recente del cantautorato italiano (Paolo Benvegnù, giusto per citarne uno).

L'Orchestra Dark Italiana gioca con le atmosfere del folk con intelligenza e fantasia impeccabili, usando le sfumature offerte dalla lingua (la già citata “Giappone”) e i ritmi incalzanti dettati da fisarmonica e kazoo che richiamano trasversalmente le danze di paese della pianura padana e quelle del Sud Italia (senza per forza dover citare i Balcani): “Youthell” in questo senso è una specie di manifesto, un tango liberatorio suonato in campo aperto, e altrettanto liberatorio è il rock di “Vera”, forse il pezzo più compiuto. Ma in questa mezz'ora (intitolata semplicemente “S/t”) c'è davvero poco da selezionare, perchè ogni pezzo va dritto al punto. Il rock astratto e pulsante di “Rondini”, ad esempio, che potrebbe rimandare a certi Ulan Bator, il passaggio acustico intitolato “Bue Muto”, alcuni momenti di pura e solenne bellezza (“L'Aperto”) e una chiusura finalmente “dark” (“Oxa”).

Bravi, bravi, bravi. Un' orchestra eclettica, intelligente, fantasiosa, sperimentale, teatrale. In una parola: Italiana. Nella migliore accezione possibile.

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