Iron and Wine
Kiss Each Other Clean
Si rifà vivo dopo quattro anni, come se niente fosse. In punta di piedi, com’è nel suo carattere. Con passi felpati come le ciocche della sua barba. Come se niente fosse. E niente fosse cambiato, soprattutto. Mentre per gli altri, per chi lo ascolta da un po’, il tempo passa e le cose cambiano, invece. Perché nel frattempo c’è stata quella canzone, bellissima a dispetto di ogni altra estranea considerazione, Flightless Bird, American Mouth, suonata nel fotoromanzo vampiresco “Twilight” (la famosa scena del ballo, le vostre amiche e fidanzate lo sanno), grazie alla quale uno stuolo di adolescenti più o meno rincretiniti ha cominciato a prendere confidenza con il genio timido di questo fratello molto più grande e così poco glamour, nascosto dietro uno spiovente sipario di barba e capelli. Poi c’è stato il cambio di etichetta, dalla Sub Pop alla 4AD, che in America vuol dire Warner Bros, ovvero l’anticamera del ballo mascherato delle major (e della celebrità). E poi questo.
Kiss Each Other Clean che vuol dire più o meno “baciamoci fino a scomparire”. Una dichiarazione d’amore, o meglio di disamore, universale nei confronti di un mondo che l’unico amore che riesce a concepire è quello per i soldi: il sesso, la ruffianeria, il tempo, il salario, merci di scambio in questa sconcia pornocrazia su scala occidentale che ogni giorno si arricchisce di nuove nefandezze e che in Italia conosciamo fin troppo bene (“cause the rabbit will run/ and the pig has to lay in his piss”, sussurra velenoso Sam, ognuno dia a quel maiale il primo nome che gli viene in mente, io non vi ho detto nulla…). Difatti dietro il suono apparentemente morbido, pacioso e solare, Kiss Each Other Clean è un album molto più complesso e sfaccettato di quel che sembra, e molto meno ottimista. Basta ascoltare il primo pezzo in scaletta, la bellissima Walking Far From Home, dal passo claudicante e dalle discrete orlature di synth, con tutti quegli “I Saw…I Saw…” spiritati e angoscianti che rimandano al Dylan più profetico e all’“Apocalisse” di Giovanni (“I saw sickness bloom in fruit trees/ I saw blood and a bit of it was mine/ I saw children in a river/ But their lips were still dry, lips were still dry”), per accorgersene. O l’ultimo, “Your Fake Name Is Good Enough For Me”, con la strofa lanciata e swingante, spronata dai fiati che - a 3 minuti circa - dopo un cambio chitarristico degno del miglior Neil Young si sgretola in un inquietante e affannoso cupio dissolvi (“We will become/ Become/ The damage done/ We will become/ Become/ Whispers in the shout/ (…) We will become/ Become/ Forgotten names”).
In mezzo c’è di tutto e di più: brani dove il folk pelle e ossa del vecchio Iron & Wine, già emendato nello squisito predecessore The Shepherd’s Dog, diventa un country soul insieme antico e moderno, corale e onusto di afrori west-coast (Glad Man Singing, Tree By The River, il finissimo doo-wop di Half Moon, God Bless Brother In Love, tutta intarsi di arpeggi e contrappunti di piano), funky groove da eremiti e cantici delle creature come Monkey’s Uptown e l’insospettabile Big Burned Hand o fuochi di Sant’Elmo del cantautorato di oggi (o di quel che ne resta) come la miracolosa Rabbit Will Run, con la sua melodia ipnotica e cantilenante, la sua chitarra ispida e gracidante, il flauto freak e quella sfumatura pow-wov e pellerossa in cui Sam ha spesso intinto l’acquerello.
Ebbene si: “Honest” Sam Beam non è affatto cambiato, è sempre lui. A cambiare, come ne “Il ritratto di Dorian Gray”, è stata la sua musica. Cambiata si, ovvero arricchita, colmata, indorata, limata, ma sempre così nitida e trasparente da rifulgere in filigrana la poetica trasandata, antieroica, aurorale del suo autore. E a noi piace tanto, ma proprio tanto, così com’è.
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