R Recensione

7/10

Zëro

Diesel Dead Machine

Da Lione, Francia, ecco a voi gli Zëro. Un gruppo che immagino si presenti, almeno ai più, con l’anonimato di un agente in borghese. E la non trascurabile modestia di chiamarsi proprio così: Zëro. Come a mettere le mani avanti, non dovessero piacere. Un’ipotesi di valutazione che non si ha neppure il tempo di fare.

 Bastano cinque secondi dell’iniziale Bobby Fischer per capire che ci si trova di fronte a qualcosa di buono (per usare un aggettivo prudente).  In una batteria secca e fuorviante, rimbalza un giro killer di basso distorto, a metà fra la pastosità matematica dei Tool e gli iter ossessivi di matrice Oneida. Quando poi entra la chitarra, bella pulita, tutta tremolo e riverbero come se venisse direttamente dalla colonna sonora di Pulp Fiction, a sottolineare con un paio di accordi il succedersi delle battute, l’insieme che ne nasce è positivamente sconcertante. E la serie multiforme di episodi che seguono, attraversando mirabilmente buona parte della storia di certo rock estremo, confermano il disco all’altezza dell’impressione inizialmente avuta.

Proprio la complessità stilistica del lavoro, frutto evidente di influenze fra le più disparate (dai Can al blues deviato di Captain Beefheart, tanto per intenderci), tradisce l’esperienza che si nasconde dietro tanta dovizia di gusto e bravura. Già, perché questa gente cavalca le  scene da almeno un paio di lustri. Nati come Deity Guns e meglio conosciuti poi come Bästard, hanno rivestito, a cavallo del secolo, un ruolo sotterraneo quanto importante nel panorama del noise europeo. Musicisti navigati, François Cuilleron, Franck Laurino e il duo Ivan Chiossone/Eric Aldéa, titolare anche del successivo progetto Narcophony, si ritrovano d’un tratto maturi e talmente consapevoli da potersi permettere,  per l’appunto, di ripartire da zero.

Diesel Dead Machine, secondo lavoro dopo l’esordio Joke Box, è un disco che trasuda passione, audacia, perizia tecnica e profonda assimilazione di cultura noise ed indie incendiario. Si presenta con un trittico iniziale che va dalla magnifica apertura della citata Bobby Fischer, precipitato di distorsione in contenitore acustico, al minimalismo blues di Dreamland Circus Sideshow, scheletrico ripescaggio di elettronica Kraut, passando per la cavalcata Load Out, figlia del post hardcore d’oltreoceano, che rincorre e bracca inesorabile come un cane.

Le citazioni sembrano poi non finire mai: Sonich Youth e Spacemen 3 in Pigeon Jelly e Cheeeese (che potrebbe essere una jam con i Neutral Milk Hotel), la voce di Chris Leo dei The Lapse fra le pieghe liberamente new wave di Enough… Never Enough,  i Q And Not U di No Kill No Beep Beep emergono nella strumentale, ”looppata” e math, The Opening, Minutemen, Karate, spicchi di Fugazi e June of ’44 condiscono The Cage nonostante il finale organistico, mentre i Talking Heads  si appropriano di strumenti e voce per il funk noise di Sick To The Bone. Viandox, altro strumentale, chiude il lavoro omaggiando ancora gli Oneida con un giro furioso in pentatonica, un lavoro splendido di chitarra ed un’elettronica al limite dell’eccessivo a porre il sigillo finale.

Ci sarebbe da chiedersi come mai certa musica attraversi il mercato silenziosa, inosservata, alla maniera di un orgoglioso clochard. Diesel Dead Machine è un pellegrinaggio devoto fra le vette incontrastate della musica “disturbata”, figlia della rabbia come della disposizione all’esplorazione della mente. È un disco che, per molti versi, non presenta un punto debole. Compatto nella sua qualità dal primo all’ultimo suono, riesce costantemente a scansare ovvietà, oppressione e noia attraverso una iterazione mai scontata o eccessiva delle trame intessute, una diversità continua nelle atmosfere sonore attraversate, una ricchezza stilistico-espressiva  che anche nel parlato della voce (sì, qui non si canta mai, ma in quanto a parlati, rap a parte, non manca nulla) si traduce sempre in ottimi risultati. La registrazione, curatissima e rigorosamente in presa diretta, è tesa a catturare la dirompente (a quel che si dice) potenza live del gruppo. Certo è che, allo stesso tempo, i suoni escono un po’ compressi e l’impasto degli uni negli altri, a mio parere, sacrifica parzialmente l’identità dei singoli circoscrivendo in qualche misura l’orizzonte espressivo della band. Sarà brutto da dire, ma una produzione anche solo un filo più ricca avrebbe probabilmente fatto del bene.

Se questo disco non prende un otto è solo per l’insondabile legge naturale per cui l’eccellenza è sempre una qualità sottile, ma indubitabilmente riconoscibile. Si presenta sgargiante come un pavone in un cortile di tacchini. Fra mille linguaggi assorbiti, agli Zëro manca forse solo questo: il linguaggio loro, esclusivo, in cui il retaggio culturale si sciolga per poi sintetizzarsi nuovamente in caratteristiche talmente eccezionali da farli brillare nel mucchio. Sono un pavone, gli Zëro, che deve ancora fare la ruota.

MySpace:        http://www.myspace.com/zeromusik

Live Photos:    http://www.flickr.com/photos/rax2/...

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