Jónsi
Go
Che il mondo di Jón Þór Birgisson stesse sempre più differenziandosi da quello inizialmente condiviso, almeno in apparenza, con i suoi compagni di gruppo, mi apparve davvero evidente durante i concerti italiani dellestate 2008, quando il bassista Georg Hólm e il polistrumentista Kjartan Sveinsson si esibirono sul palco impeccabili nei loro completi scuri, facendo a pugni con il batterista Orri Páll Dýrason, tutto sbrindellato, praticamente in tuta da casa anche se addobbato con una regale corona cartonata, e Jónsi si presentò invece in una mise che definire ibrida sarebbe riduttivo: completamente in nero, puntellato di sbuffi e cerniere tra il glam più becero ed il vistoso costume teatrale, truccato, ricoperto di ciuffi di pelo e piume duccello che ne facevano un improbabile incrocio fra Geronimo, un hippie versione Matrix ed il protagonista della serie televisiva anni 80 Manimal, colto a metà trasformazione.
Ora che i Sigur Rós sono in pausa, pare per una generale e contemporanea dedizione allallargamento familiare, Jónsi, che non ha di questi problemi (lo dice lui, non la politica) ha trovato il tempo per trarre in suono ed esporre questo suo esuberante e frastagliato mondo personale. Così, se la pubblicazione dello sperimentale, rarefatto e per certi versi incompiuto Riceboy Sleeps (Parlophone, 2009), registrato in coppia con il compagno di vita Alex Somers, ribadiva lattrazione del nostro per lambient più estatico, onirico e brumoso, Go arriva oggi a fare da spiazzante contraltare a quel lavoro e a ribadire leclettismo strampalato dellartista islandese. Be, spiazzante non è forse laggettivo più adatto: per chi avesse presente lultimo lavoro dei Sigur Rós, quel non riuscitissimo Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust o, ancor meglio, il brano posto in apertura a quellalbum (Gobbledigook), con la sua esuberanza neo-hippie da figli della tundra e video nature annesso, non sarà così difficile immaginare il folk percussivo e leffervescente elettricità che pervade buona parte delle tracce di Go.
Co-prodotto da Somers e da Peter Katis (già con The National ed Interpol), Go si compone di nove canzoni ripescate dallarchivio personale del nostro e rivestite di tutto punto. Già, perché nonostante lidea originale fosse quella di un album acustico e scarno, il prodotto finale è invece unopera profondamente stratificata, caratterizzata da un gran numero di strumenti più o meno probabili (come da tradizione) e da arrangiamenti minuziosi e roboanti curati nientemeno che da Nico Muhly (Björk, Antony & The Johnsons e Grizzly Bear, per fare qualche nome). Il tutto, bisogna dirlo, declinato in chiave squisitamente, o sfacciatamente, pop: canzoni brevi, melodie affabili ed immediate, quasi solari a tratti, imbastite per lo più secondo la classica alternanza strofa/ritornello e quasi tutte cantate in inglese, crescendo emozionali di facile fruizione, laura di unelettronica avvolgente che tutto pervade e delicatamente candisce.
Lalchimia funziona piuttosto bene negli episodi più leggeri. Liniziale Go Do, e più ancora la circense filastrocca di Animal Arithmetic, stupiscono per la marziale ricchezza percussiva, magistralmente gestita per tutta la lunghezza dellalbum dallottimo Samuli Kosminen, e per il contrasto tra strumento e messaggio, laddove attraverso luso pesante della tecnologia si percepisce invece una debordante attrazione per la natura incontaminata.
Lo spettro emozionale del disco non si limita però alla sola, martellante baldoria elettro-folk: aderenze con il modello Sigur Rós si trovano, con una certa frequenza, quando le atmosfere si fanno più rarefatte: Tornado, il crescendo di Grow Till Tall che porta alla piena saturazione dello spazio sonoro, la conclusione sospesa di Hengilás. Il sinistro, cupo vibrare delle prima parte di Kolniður, laltro brano cantato in islandese, pare invece essere troppo pregno dangoscia anche per i pur notevoli canoni del gruppo madre.
Non si discute, a fronte di questo lavoro, la levatura dellartista. Resta però, nonostante linnegabile certosino lavoro di arrangiamento e missaggio, limpressione che ciò che manchi a Go siano proprio le canzoni. Esaurito lentusiasmo che una cassa dritta e veloce in un pandemonio di suoni può suscitare, al di là dellamore che per una grande vocalità si può giustamente avere, quel che resta è un manipolo di brani che a ben guardare incidono poco, non sollevandosi mai oltre la coltre delluniformità e dellabile mestiere. E limpressione che, per quanto ripuliti e rivestiti con ogni cura, si tratti sempre e comunque di brani scartati nel corso degli anni di carriera aleggia nellaria persistente ed inevitabile come lo sgradevole odore di un sigaro scadente.
Tweet