Pixies
Bossanova
Album assolutamente sottovalutato questo “Bossanova”. Questa volta i folletti non salgono sulla luna. Eppure il lavoro esce solamente a un anno di distanza (nel 1990) dal celebratissimo “Doolittle” e a due dai fasti di “Surfer Rosa”. Difficile dilapidare l’immenso talento dimostrato in quelle due prove nel giro di pochi mesi. Nondimeno “Bossonava” viene, fin da subito, snobbato e messo da parte. L’epoca grunge incombe e le luci del music-biz si spostano da Boston e dalle altre capitali dell’indie-rock (o “alternative” a seconda dei casi e dei gusti) su Seattle. Il battage pubblicitario che converge sulla capitale del grunge, mette in ombra anche Frank Black e compagni, ma c’è sicuramente dell’altro. I Pixies vengono “maltrattati” anche da buona parte della critica, che (quasi) all’unanimità boccia l’album, giudicandolo non all’altezza delle vette toccate con i primi due lavori. Il passaggio di decade si dimostra meno soffice del previsto. È un pugno allo stomaco per una band che, invece, aveva sempre goduto di ottime recensioni e che era stata coccolata da larga parte della stampa musicale. In più risulta sempre più difficile nascondere i dissidi tra il pingue cantante e la bassista Kim Deal. Contrasti che porteranno alla precoce chiusura dell’avventura di questo cruciale gruppo con il quarto album: “Trompe le monde” uscito solamente un anno più tardi.
Personalmente ho sempre ritenuto “Bossanova” un ottimo album, degno erede delle prove precedenti, se non perfino meglio dal punto di vista dell’unitarietà del suono e della qualità complessiva delle composizioni. Sempre elevatissima. La partenza è bruciante, uno scatto da centometrista, anche se non c’è un classico alla “Debaser” ad aprire. Ma “Cecilia Ann” rispolvera un amore mai sopito per Black, ovvero quello per il surf-rock, e lo fa con tutta sincerità alla grande. Alzi la mano chi si sarebbe aspettato uno strumentale come questo ad aprire la terza prova dei Nostri. A seguire la scarica elettrica di “Rock Music”: tiratissima anche dal punto di vista del cantato, con un Franck Black che urla a squarciagola su una base tellurica tra punk e hard rock. A ruota il primo grande singolo, “Velouria”. L’intreccio tra le due voci non potrebbe essere più azzeccato e il refrain sgorga melodico dalle scosse chitarristiche messe in campo dal fido Joey Santiago.
Ma il bello arriva subito dopo con il sixties rock a velocità raddoppiata dell’innodica “Alison”; poco più di un minuto per un’altra azzeccatissima melodia. Un poker del genere sarebbe stato difficilmente preventivabile da chiunque. Forse anche dagli autori stessi. La qualità non decresce, comunque, neanche con i pezzi successivi, anzi. “All Over The World” è puro distillato pop-rock: sintesi difficilmente coniugabile a livelli così eccelsi. “Dig For Fire” è un’anthem a livello delle preziosissime gemme sfoderate nelle prime due raccolte di canzoni. E via con il crescendo corale di “The Happening” e gli stop and go della Deal in “Blown Away”, che canta come mossa da flusso di coscienza. Avvolta in un sogno bianco. Con “Hang Wire” la parola torna al salmodiante Black, che sbraita invece tra il sardonico e il parossistico. A seguire, poi, quello che ritengo il capolavoro dell’album: la litania nera, scurissima, alla Velvet Underground del terzo album, di “Stormy Weather”. Francis si cala benissimo nelle vesti di un Lou Reed meno eroinomane e il pezzo si avvolge su se stesso in un coro che sembra provenire dagli inferi. Si potrebbe concludere qui, ma c’è spazio anche per un soffice folk come “Havalina”. Per coloro che c’erano un album da riscoprire, per gli altri uno degli acquisti imprescindibili (assieme a “Surfer Rosa” e “Doolittle”) della discografia tra fine Ottanta e inizio Novanta.
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