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R Recensione

6/10

Herman Dune

Sweet Thursday

Herman Dune è un progetto musicale che vanta una storia oramai ventennale e che, proprio per la sua natura legata a doppio filo a una certa bassa fedeltà che oggi appare essere caduta in disuso, non ha forse mai veramente ottenuto la giusta popolarità. Inizialmente un trio, il gruppo è fondamentalmente incentrato sulla stravagante figura di David-Ivar Herman Dune, unico membro originario del gruppo (qui completato da Kyle McNeill al basso e Lewis Pullman alla batteria) e autore di un numero incredibile di pubblicazioni più o meno clandestine, tra cui menzionerei quella di due-tre anni fa a nome Black Yaya tra i capitali più interessanti e definiti.

In effetti, la caratteristica tipica di questo gruppo è quella di non essersi mai dati una vera definizione di genere che vada oltre quei canoni lo-fi tipici degli anni novanta. Lou Barlow, Stephen Malkmus, lo stesso Beck Hansen, si possono definire a pieno titolo come i modelli di riferimento di David-Ivar, cantautore bohemienne e hippie ante litteram. Oggi vive a San Pedro in California, dove è stato registrato “Sweet Thursday”. Ispirato alla letteratura di John Steinbeck e a quella che appare a tutti gli effetti essere una nuova dimensione e una nuova fase nella vita del cantautore francese, si rivela un album in qualche maniera inedito e forse persino ambizioso nei suoi contenuti rispetto agli standard.

Questo non significa che David-Ivar si sia snaturato, il sound Herman Dune rimane sostanzialmente lo stesso e lo scarso riscontro ottenuto finora spiega come probabilmente questo gruppo il grande successo non lo raggiungerà mai, ma dire che questo disco abbia una certa definizione rispetto agli altri non è sbagliato. Un paio di pezzi fondamentali come “Oh Sweet Thursday e le ballad A Giants Dream” e Dreamin Is Over, California” rientrano tra i soliti parametri e sono in effetti i momenti più significativi in un album dove abbondano riferimenti e tentativi di emulazione del patrimonio musicale degli USA, da un certo Bob Dylan (“Vincent Thomas Blues”), a una dimensione folk minimalista quasi paesaggista tipo “Wicked Love”, il John Fogerty di “Down By The Jacaranda”, il country westernato di “Love Cat Blues” e “Joanna”, fino a un imprevedibile Bruce Springsteen in Early Morning Anderson Blues”.

Il fatto che nessuna di queste canzoni sia esattamente brutta, al contrario, garantisce a questo disco una piena sufficienza. Ma desta comunque nei suoi contenuti complessivi una certa perplessità, perché c'è comunque un senso di vuoto complessivo che alla fine salta fuori. Magari stiamo credendo troppo a questo eterno ragazzo, che qui cerca un compromesso tra la sua natura e una maturità che forse non gli appartiene. Ma chi lo sa se questo sia, poi, veramente un difetto.

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