Tv On The Radio
Return to Cookie Mountain
La scena sperimentale newyorkese non sembra accusare segni di stanchezza, né volersi concedere pause. Nell'arco di pochi mesi, alla pregevole conferma dei Liars di Drum's not Dead segue la non meno convincente prova dei Tv on the Radio, che con il loro secondo album, Return to Cookie Mountain, ribadiscono ed enfatizzano quanto già di buono mostrato con il precedente Desperate Youth, Blood Thirsty Babes. Ad onor del vero, quel poco che non aveva convinto allora, continua a non convincere oggi, ma le perplessità restano più legate alla debolezza di alcuni passaggi che alla qualità artistica complessiva, indubbiamente eccelsa.
Il collettivo dei Tv on the Radio dà vita, qui più che mai, ad uno spudorato caleidoscopio musicale di cui enumerare le influenze è quasi pletorico: il post punk dei Joy Division, le inflessioni elettroniche dei New order, l'acid house sui generis di Aphex Twin, la vena oscura dei Morphine, fino ai richiami neo psichedelici dei loro coetanei Fiery Furnaces (a proposito di scena newyorkese) e chissà quanto altro ancora, tutto magistralmente assemblato in un album che suona assai meno minimalista del suo predecessore.
I Was a Lover, pezzo d'apertura, ne è la testimonianza più evidente: campionamenti, loop di sintetizzatori, sciabolate di chitarre distorte su una base di percussioni elettroniche, intervallati da un improbabile siparietto glam.
Return to Cookie Mountain si regge su pochi, ma chiari, concetti, tra cui la circolarità sembra essere quello chiave; lo dimostra bene Hours, costruita sui refrain sistematici di tastiere e sassofono e nella quale Kazu dei Blonde Redhead affianca Turne Adebimpe alla voce.
Più avanti, Wolf like Me, sorretta da elettrizzanti giri di basso e chitarra, vira decisamente verso le atmosfere tipiche del noise rock ed emerge come uno dei momenti più convincenti dell'album.
Altro importante cammeo da registrare è quello di David Bowie, prestigioso mentore del progetto dei Tv on the Radio fin dagli esordi, che concede la propria presenza ai background vocals in Province, un pezzo che non avrebbe sfigurato in qualche suo album del periodo berlinese.
Ciò che invece continua a lasciare perplessi nelle produzioni di questo gruppo è la difficoltà di comprendere dove termina la sintesi creativa e comincia la maniera, il puro gusto dell'accademia. Brani come Playhouses o Let the Devil Get In suonano brillanti, tecnicamente virtuosi, a volte persino maestosi, ma in fondo sono solo una passerella un po' narcisistica in cui esporre le proprie grazie e nulla più. Stesso discorso si potrebbe fare per Wash the Day Away, apoteosi noise posta in chiusura. Queste debolezze, che tutto sommato si lasciano perdonare, aumentano in proporzione con la complessità stilistica di questo lavoro, rispetto alla maggiore linearità degli esordi e sono comunque compensate da una più costante tensione lungo tutto il corso dell'opera, con il venir meno di quei momenti di scarsa ispirazione (tanto da far sfiorare la noia) che il primo album talora mostrava.
Quando poi alla fine si vanno a tirare le somme, il bilancio è abbondantemente positivo, per cifre che di rado capita di vedere. E se non prevarrà proprio ora la subdola tentazione di sedersi sugli allori a compiacersi del proprio talento, i TV on the Radio si sono già garantiti un posto da protagonisti nel panorama musicale degli anni a venire, ben oltre i confini della Grande Mela.
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