Eels
End Times
La fine del mondo. Perché quando una storia d’amore finisce, in un certo qual senso, un po’ lo è. Mr E lo sa. Perché quella piaga insanabile da sindrome di abbandono, quel senso di precarietà e di fine imminente, l’ha provati sulla sua pelle (non credo ci sia bisogno ripassare la sua biografia che tanto, più o meno, la conosciamo tutti: il padre Hugh Everett III, genio incompreso autore de “L’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica”, teoria che lo fatto passare per scemo tutta la vita e riscoperta in tutta la sua lungimiranza solo dopo la morte, la grave malattia mentale della sorella, la morte della madre) e a questo suo tormento ha conferito lo spessore d’una poetica.
E per raccontarcelo, ancora una volta, dall’ennesima angolazione, sceglie un abito antico, familiare. Concepito in parallelo e pubblicato a strettissimo giro di posta da Hombre Lobo, End Times ne rappresenta la controparte macerante, dolente, meditabonda. Passata la sbornia ferina, l’uomo lupo si risveglia glabro e infreddolito, rannicchiato sulla ghiaia del vialetto di casa, e si rende conto che ha perso tutto, anche le chiavi per entrare. Il quadro non è poi tanto differente da quello delineato nel trisavolo Beautiful Freak anche se la forma è più matura, pacata. Più classica.
Rivive nello scarno elettro-folk di In My Younger Days, nella desolazione in punta di penna e con la voce rotta di End Times (“… She’s Gone now/ And nowhere’s here/ Seems like the end of times is here”), nel piccolo lied per piano e banjo di Alone In The Dirt , nella toccante confessione di I Need A Mother laddove il “little lied” per piano e hammond si colora quasi di gospel, nel folk un po’ younghiano di Nowadays a cui le pennellate acquose degli archi e dei fiati, sottotono, conferiscono un po’ più di respiro.
E mentre qualche feritoia di sole filtra dalle miniature domestiche di The Mansion Of Los Feliz e Little Bird o dalla più estesa, (anti)epica, sessantesca On My Feet, il vitalismo di Hombre Lobo (ma anche di Souljacker, ad esempio) pulsa nel jump-blues di Paradise Blues e Gone Man con la loro ruvida scorza di amarezza postribolare e nel garage’n’roll iper-stilizzato di Unhinged.
Gli Eels sono anche, soprattutto questo. Fedeli a se stessi. Fino alla fine.
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